Stanno venendo al pettine in questi giorni diversi temi cruciali per il futuro dell’Italia, su cui il nostro governo dovrà prendere posizione, senza poter ulteriormente rinviare. Uno di questi è il “Patto di stabilità”, che era stato varato con l’introduzione dell’euro, poi rafforzato dopo la crisi finanziaria del 2008, sospeso quando insorse la crisi da Covid, ma ora va re-introdotto a gennaio 2024.
Perché l’Unione europea ha avuto bisogno di accompagnare all’introduzione dell’euro tale Patto? La ragione è che nel trasferire la politica monetaria dei paesi dell’euro ad un’istituzione unitaria – la Banca Centrale Europea – non si è potuto fare altrettanto con la politica fiscale, ancora nelle mani dei singoli paesi. Si è fatta, cioè, una Unione monetaria, ma non un’Unione fiscale, come esiste in tutti i paesi del mondo. Ora, le due politiche, pur diverse, devono funzionare in sintonia, altrimenti la situazione finanziaria di un paese va fuori equilibrio. Mantenendo i paesi membri dell’Unione europea l’autonomia fiscale, ecco che il Patto indica loro delle linee guida da seguire per impedire lo squilibrarsi della situazione economica dell’Unione. Non è possibile approfondire concettualmente questa questione in un breve articolo, ma se partiamo da questo assunto, si capisce perché il Patto sia fondamentale.
Nello specifico, esso prescrive che il deficit annuale di ciascun bilancio dello Stato (ossia le spese che eccedono le entrate fiscali) non superi il 3% del PIL e lo stock di debito pubblico (la serie storica dei deficit accumulati e finanziati con prestiti) non superi il 60% del PIL.
Qual è il problema dell’Italia? Il principale problema è stato che all’atto dell’entrata in vigore dell’euro (2002) il debito pubblico italiano superava il 100% e con le gravi crisi successive è giunto ora al 140%. Il patto di stabilità prevedeva, prima della sua sospensione, che in un caso come questo ogni anno ci fosse un abbattimento del debito di un ventesimo, abbassando il deficit annuale a meno del 3% per poter coprire questa diminuzione progressiva del debito. Ci sarebbe molto da dire su come l’Italia sia venuta a trovarsi con un debito così elevato in partenza e non sia riuscita a decumularlo, pur facendo vari sacrifici sul piano della spesa pubblica. Ma quello che ora occorre comprendere è che è urgente decidere cosa fare nel futuro. Oggi l’Italia ha un deficit che si aggira sul 4-5% del PIL e tornare a meno del 3% improvvisamente con i problemi attuali sarebbe difficilissimo. Una pura e semplice riproposizione del Patto sarebbe dunque dolorosa per l’Italia e si stanno facendo proposte per una sua modifica. Quella più accreditata prevede di scorporare dalla spesa pubblica la spesa militare e gli aiuti all’Ucraina e anche gli investimenti in transizione green e digitale.
Mario Draghi ha recentemente proposto di mettere le modifiche al Patto, da lui ritenute necessarie, in un contesto di promozione di un’Unione fiscale, che incominci dalla difesa, e, appunto dalla transizione verde e digitale. Questo passaggio arriverebbe a dotare l’Unione Europea di vere e proprie politiche comuni di investimento in quegli ambiti, che verrebbero messi “al sicuro” da problemi nazionali, mentre naturalmente un nuovo Patto dovrebbe essere stilato per la restante spesa pubblica, fino al momento in cui non si deciderà di “federalizzare” anche altro. A Draghi è stato conferito il compito di presentare un Rapporto sulla competitività dell’Unione Europea, che però sarà pronto successivamente alla discussione sulla reintroduzione del Patto di stabilità. Ci auguriamo fortemente che i paesi dell’euro (20 sui 27 membri) sappiano andare oltre le diatribe tra paesi “spendaccioni” e paesi “austeri” e lavorino per far sì che a tutti i membri dell’Unione Europea venga data l’opportunità di cooperare nella difficile congiuntura attuale, nella prospettiva di Draghi di un percorso verso un’Unione fiscale, che permetterebbe all’Europa di riconoscersi meglio in un comune destino.