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Taglio dei tassi: perché era fortemente atteso dai mercati

La sede della BCE. (© MichaelM da Pixabay)

Come largamente previsto, la BCE ha tagliato, per la prima volta in 5 anni, i tassi in Eurozona. La riduzione, di un quarto di punto percentuale, però, non ha prodotto alcun effetto concreto e, addirittura, ha avuto un riscontro negativo dal lato dei mercati, con un contraccolpo verso il basso dei principali indici di borsa, un aumento dello spread, almeno dal lato del differenzia e BTP-Bund, e nessun effetto dal lato delle aspettative e della fiducia di aziende e persone.

Nonostante la, seppur modesta, boccata d’aria relativa agli interessi dovuti su mutui e aperture di credito che ne conseguirà gli operatori hanno accolto piuttosto freddamente l’azione di Francoforte da un lato perché già ampiamente scontata a livello di mercato, come mostrano i livelli di Euribor e IRS che rappresentano i parametri di calcolo per i tassi applicati dal sistema finanziario al credito, dall’altro perché specchio dello scarso coraggio e della condotta, diciamo, ondivaga e indecisa che caratterizza l’autorità monetaria europea in questi anni.

Il taglio dello 0,25% del tasso di riferimento è stato accompagnato da una previsione pessimistica sul livello dell’inflazione che, invece, continua la sua parabola discendente sin da quando lo shock sul mercato energetico e delle materie prime è rientrato lo scorso anno indicando, quindi, l’incapacità di comprensione dei fenomeni macroeconomici dall’attuale board della Banca Centrale che prosegue a muoversi in maniera ideologica e priva di ogni spunto analitico sull’andamento del sistema economico ovvero (e questa è l’ipotesi peggiore) di rimessa rispetto alle decisioni della FED per cercare di mantenere la quotazione della moneta unica, in maniera goffa e poco efficace, vista l’oscillazione della quotazione nell’ultimo anno e dalla riduzione delle riserve in euro da parte delle banche centrali nel mondo nello stesso periodo.

La credibilità, che è la vera forza di un’autorità monetaria, è ai minimi dal momento che le azioni della BCE sembrano essere decise di rimessa alla situazione contingente, seguendo le variazioni dei livelli di inflazione rilevati (che derivano da una misurazione empirica che non sconta, comunque, le variazioni di prezzo sui mercati internazionali) e non su un piano di largo respiro come, in direzione contraria, aveva applicato la stessa nel periodo in cui era governata da Mario Draghi e che aveva, di fatto, salvato l’impianto monetario unitario nella sua “ora più buia”, quando l’euro rischiava di saltare per via della crisi dei debiti sovrani degli stati membri.

Vero è che nulla dura in eterno e la situazione odierna sia molto differente da quella in cui si era trovato ad agire l’ex governatore ma non meno difficile per via dei conflitti in essere e delle tensioni internazionali che si sono palesate nel periodo post-Covid e, per questo, un ritorno a un regime di tassi nulli o, addirittura negativi, non è credibile; si potrebbe dire, anzi, che l’attuale board a guida Lagarde abbia tentennato troppo nell’uscita dalla “politica Draghi” per una normalizzazione della politica monetaria, anche di fronte a un periodo difficile quale fu quello segnato dalla pandemia tra il 2020 e il 2022.

Il problema è che un’azione improvvisa, come quella attuata in risposta allo shock sui prezzi che si è visto nella seconda metà del 2022, è stata deleteria dal lato dei mercati anche perché priva di un qualsiasi progetto che non fosse “riportare l’inflazione sotto il 2% entro…” mentre la chiusura del periodo dei tassi nulli avrebbe necessitato di un progetto di medio termine, coerente e con scadenze precise, per permetterne la “prezzatura” da parte dei mercati e la formazione di aspettative razionali sull’evoluzione da parte degli attori.

Tutto questo non è avvenuto e il continente, che stava lentamente uscendo dalla recessione innescata dagli “anni del contagio”, si è trovato con la crescita azzoppata e l’innalzamento del rischio di credito verso famiglie e imprese di fronte al fin troppo veloce innalzamento dei tassi di interesse nonostante la già innescata discesa dei tassi di inflazione rilevati per il calo dei costi di gas e petrolio, in primis, e della logistica, in secundis.

In pratica negli ultimi mesi il costo del denaro è stato elevato, artificiosamente, fino ai massimi livelli storici senza ottenere dei risultati apprezzabili perché la discesa dei prezzi era già stata innescata dal rientro nei range consolidati di energia e logistica, innescando una normalizzazione che si è verificata nel giro di pochi mesi, ben prima che la stretta monetaria potesse dare i suoi frutti in tal senso.

In compenso si è ridotta la domanda, soprattutto nei paesi laddove sia più comune il ricorso al credito, la produttività e le aspettative degli industriali sono peggiorate ed è aumentata la servitù dei debiti sovrani e il costo del rifinanziamento delle imprese anche sul mercato.

Il risultato, ovviamente, si è visto sui tassi di crescita in tutta l’Euroarea che, dove non si è potuto contare sull’export come fattore trainante, si è azzerata o, addirittura, è andata in territorio negativo, prima ancora di recuperare pienamente i due anni persi, tra il 2020 e il 2021, per via del contagio da Covid19.

Per queste ragioni il taglio dei tassi era fortemente atteso sui mercati, tanto che banche d’affari come Goldman Sachs vedevano l’indice sotto il 2,5% in tempi relativamente brevi, e la riduzione di un quarto di punto lasciando aperto un significativo punto interrogativo per il futuro ha scontentato tutti.

In realtà, però, non è tanto la minima azione sui tassi a non aver riscontrato il favore del mercato ma la conferma della visione miope del board che per un aumento spot di un decimo di punto del tasso medio di inflazione rilevata in Europa, seppur con diversi Stati membri, tra cui l’Italia, abbondantemente al di sotto dell’1%, ha rimandato a future valutazioni ogni decisione senza far vedere alcun piano d’azione credibile.

La questione della credibilità, infatti, è cruciale perché la BCE l’ha giocata tutta in questi mesi e in pochi vedono una benché minima autorevolezza nella gestione di un settore fondamentale in economia quale sia quello della politica monetaria. Sicuramente pesa sulle future azioni l’attendismo della FED, che, però, si appoggia su dati di crescita statunitense solidi e su una tenuta dell’occupazione oltre le aspettative nonostante il rialzo dei tassi al livello più elevato degli ultimi 20 anni, per non correre alcun rischio sul cambio ma sembrerebbe che a Francoforte non si considerino le differenze, pesantissime, tra il sistema economico d’oltre oceano e quello continentale, più basato su produzione e commercio che sul consumo come quello statunitense.

Un alto costo del denaro significa minori investimenti e minori consumi, quindi una contrazione della domanda interna e, con il modello europeo, una maggior dipendenza dalla domanda estera che amplifica il rischio mercato non potendo contare su una domanda interna che è, storicamente, ip principale stabilizzatore del sistema.

Questo discorso, ovviamente, non significa che i tassi debbano essere riportati a zero che, anzi, è una situazione che già nel medio periodo porta a delle distorsioni non banali, come la formazione di autentiche bolle finanziarie per la ricerca spasmodica di rendimento dei capitali, ma a un livello che possiamo dire “neutrale”, che personalmente indico tra il 2% e il 2,5%, sì senza temere alcuno shock inflattivo.

L’inflazione, infatti, deriva da un’offerta di moneta superiore alla domanda del mercato ma qualora quest’ultima fosse costante e assorbisse tutta l’offerta per finanziare investimenti e produttività e non, meramente, i consumi, non si avrebbe alcun effetto rilevante sul livello generale di prezzi salvo shock sui mercati a seguito dell’impennata del costo dei fattori produttivi o per un calo dell’offerta o per un aumento della domanda che, però, non possono essere considerati inflazione poiché non si tratta di fenomeni monetari. Questa interpretazione, evidentemente, non è gradita al vertice della Banca Centrale che persegue ad agire semplicemente in risposta agli eventi e alle rilevazioni spot e non riesce a mettere a terra un piano attendibile che permetta an tutti gli attori sul mercato di elaborare delle aspettative razionali sul futuro e preferendo, evidentemente, aspettare che altri decidano al posto loro per seguirne le tracce anche se questo potrebbe andare a discapito sia del sistema produttivo sia della popolazione della vecchia Europa.

Matteo Gianola: