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Summit di Hanoi: ecco perché è fallito

Il vertice di Hanoi è terminato anzitempo. La capitale vietnamita ha soltanto potuto confermare quanto era già possibile prevedere da un po' di tempo a questa parte: il percorso di graduale riavvicinamento partito mesi fa tra Stati Uniti e Corea del Nord è giunto ad una profonda fase di stallo. L’incontro tra Trump e Kim ha soltanto rimarcato quanto, in definitiva, le parti siano lontane dal giungere ad un accordo sul nucleare che tranquillizzi Pyongyang ed al contempo assicuri a Washington la rinuncia a qualsiasi progetto di proliferazione. Difficile immaginare che i rispettivi entourage dei due leader e le diplomazie dei due Paesi non fossero a conoscenza delle richieste della rispettiva controparte.

Alla luce di ciò, il summit si è rivelato un grosso fallimento, dal momento che non ha contribuito ad alcun passo in avanti. Stando a quanto trapelato, non sarà di certo l’ultimo vertice tra i due (già incontratisi a Singapore nel giugno scorso), ma la sensazione generale è che, dietro i progressivi miglioramenti nei rapporti bilaterali tra i due Paesi, questo stallo sia molto difficile da rimuovere proprio perché il tema dell’accordo va ad incidere proprio sugli elementi sulla quale è imperniata la strategia di politica estera delle due parti.

Trump ha chiesto a Kim la completa denuclearizzazione della Corea del Nord, la rinuncia a qualsiasi progetto di scissione dell’atomo a fini militari in cambio della rimozione delle sanzioni economiche Usa. La risposta nordcoreana, in verità, è andata incontro ad una possibile intesa: Kim si sarebbe detto disposto a chiudere, per il momento, solo il sito di processamento dell’uranio di Yongbyon, uno dei più grandi del Paese, ma non l’unico. Tale sito è già stato oggetto del riavvicinamento con Seul, con Kim che ne ha già promesso la chiusura in settembre alla controparte sudcoreana. Washington, ovviamente, non ha ritenuto la mossa soddisfacente al punto tale da poter cominciare a parlare di rimozione delle sanzioni. Kim ne esce, senza dubbio, meglio di Trump, arrivato ad Hanoi senza un’agenda troppo chiara, forse un po' troppo convinto della sua forza persuasiva, dell’impatto che un incontro faccia a faccia avrebbe potuto avere su un leader giovane sì, ma a quanto pare già dimostratosi parecchio scaltro nel rilanciare l’immagine della Corea del Nord, ultimo Paese trincerato dietro una tenebrosa cortina che sembrava invalicabile, ma che invece sta dimostrando di voler seriamente modulare le proprie politiche per attrarre gli investimenti economici necessari per garantirne la sopravvivenza.

Kim, infatti, sta traendo i massimi vantaggi dal nuovo ordine multipolare: latentemente appoggiata dalla Cina, Pyongyang sta tentando, innanzitutto, di migliorare la propria posizione a livello regionale. Il giovane leader ha dimostrato, in barba ai pregiudizi del mondo occidentale, di poter mitigare i rapporti con Seul in linea diretta, senza la mediazione di attori esterni (gli Usa su tutti). Visitando il Vietnam a bordo del treno che, partito dalla capitale nordcoreana, ha attraversato tutta la Cina, Kim ha espresso un vivace interesse nell’osservare il sistema economico vietnamita, socialista di impostazione, ma orientato al pragmatismo e all’iniziativa privata, nonché vero e propria calamita di investimenti stranieri. Il potenziale di forza lavoro nordcoreano ancora non sfruttato dall’Occidente, infatti, fa gola sia a Seul che a Mosca. Kim lo sa bene, oltre a sapere quanto sia importante lo sviluppo di una sufficiente deterrenza nucleare per “assicurare” il suo Paese contro qualsiasi possibile ingerenza esterna e perpetrare il suo potere. Kim sa anche che senza i dovuti investimenti stranieri il mito dell’ideologia “Juche” e della fortezza socialista ed autarchica è destinata ad una triste capitolazione in un continente asiatico sempre più dinamico.

Per questo motivo il vertice di Hanoi ha contribuito a presentare Pyongyang come forza, tutto sommato, ben disposta ad affrontare un processo di necessaria apertura, in contrapposizione ad un’altra presentatasi in Vietnam con un solo obiettivo: continuare a dettare i ritmi della politica internazionale facendo leva ancora su categorie ormai obsolete del mondo post-Guerra fredda. Il cambiamento delle dinamiche internazionali è mostrato dal fatto che gli Usa si sono seduti al tavolo per trattare con un dittatore e non l’hanno fatto, come ai tempi della Guerra Fredda, nelle familiari atmosfere neutrali di Ginevra, Helsinki o La Valletta…gli ultimi incontri hanno avuto luogo nelle asiatiche ed esotiche mete di Hanoi e Singapore. Anche la “geografia” degli incontri segna, inequivocabilmente, uno spostamento del baricentro mondiale.

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