Il primo consiglio dei ministri del nuovo governo si è aperto con l’emergenza energetica tra i punti principali che dovranno essere affrontati nei prossimi mesi. In verità è dall’attacco russo in Ucraina che la questione è diventata il primo problema in Europa che, per una miope politica energetica portata avanti negli ultimi decenni da quasi tutti gli Stati membri, risultava dipendente dalle esportazioni dalla Russia che garantiva un apporto costante e a buon mercato di gas per alimentare centrali elettriche e impianti di riscaldamento, industriali e civili.
L’inizio delle ostilità nell’est del continente e le sanzioni che l’UE ha disposto per cercare di frenare l’iniziativa bellica del Cremlino ha provocato, come prima reazione, la diminuzione dei flussi di export dalla Russia obbligando, così, gli altri stati a cercare nuovi fornitori e ad accumulare scorte in vista dell’inverno, a qualsiasi prezzo, cosa che ha fatto lievitare in maniera repentina i prezzi del gas e, di conseguenza, anche quelli del petrolio.
Però qualcosa non torna sui prezzi che al momento si palesano a cittadini e imprese. Vediamo perché. Gas e petrolio sono prezzati in borsa utilizzando dei future come indice, cioè delle previsioni di prezzo a tre mesi contrattati sul mercato delle materie prime: per il gas si guarda la quotazione del TTF mentre per il petrolio il WTI o il Brent (che è il petrolio del Mare del Nord e che è l’indice base su cui si calcola il prezzo per il mercato europeo).
Ora, accendendo la TV si sente parlare sempre di rincari enormi, di bollette sempre più pesanti e di un reale problema per le famiglie e per le aziende di sostenibilità finanziaria delle forniture energetiche ed è vero ma la cosa singolare è che il picco per il gas sia stato toccato il 26 agosto, fortunatamente in un periodo caratterizzato da alte temperature e da riscaldamenti spenti, a quasi 342 usd per poi iniziare un veloce declino fino ai 113,57 usd segnati a fine settimana scorsa, sicuramente molto più oneroso rispetto alla media sotto i 20 usd dell’epoca pre-Covid, ma in linea con i prezzi segnati prima dell’invasione dell’Ucraina e in rialzo per via della richiesta di nuova energia per alimentare la ripresa post-pandemica.
Stesso discorso per i carburanti che, nonostante il taglio delle accise ancora in essere, volano a prezzi mai visti prima, nemmeno a maggio 2008, quando fu segnato il massimo storico delle quotazioni, o nella seconda metà del 2012 quando ci fu il secondo picco, sempre ben più elevato rispetto alle quotazioni di questi ultimi mesi.
Vero che qualcosa stoni di fronte a questi dati che sono facilmente reperibili per tutti semplicemente cercando su Google un qualsiasi sito di quotazioni borsistiche?
Sicuramente la domanda mondiale influisce tanto sui prezzi finali, come sul gasolio ma lo vedremo fra poco, e il costo dell’approvvigionamento energetico, anche per i produttori, va a influire su tutta la filiera ma sembra piuttosto strano che, oggi, il peso sul portafoglio delle persone dell’elettricità per il funzionamento di qualsiasi cosa in casa e del gas per cucinare e per scaldarsi sia sempre in crescita.
Per sfatare molti miti da social media, diciamo subito che, no, non è la speculazione la causa prima di questi rincari ma la colpa, vera, va cercata a livello politico.
In incipit si è accennato a una miope politica energetica e il punto sta proprio qui, soprattutto pensando alla nostra Italia (benché anche la Germania, ad esempio, non sia in condizioni migliori, anzi…). La base della pianificazione energetica nazionale, almeno dalla seconda metà degli anni ’80 a oggi, può essere riassunta nell’acronimo inglese NIMBY (not in my back yard cioè “non nel mio cortile”) che indica benissimo come si sia sempre cercato di rinviare il problema cercando soluzioni di comodo e, populisticamente, accettate dalla popolazione.
Non si tratta, ovviamente, solo della questione nucleare, che, comunque, è stato un suicidio economico per il Paese poiché, oltre ad aver pagato per anni delle centrali funzionanti ma che non generavano alcun output energetico, se si volesse tornare indietro e reinserire il comparto nel mix energetico nazionale occorrerebbe attendere almeno 10 anni prima di avere un reattore funzionante, ma di una questione ben più estesa che passa per i referenda NoTriv per arrivare alle proteste contro il rigassificatore di Piombino oggi.
Con l’incidente di Chernobyl la questione energetica è entrata prepotentemente nel nascente dibattito ecologico, non che prima non fosse presente ma i punti più “caldi” erano altri, e nonostante il disastro a Pripyat sia stato causato da un errore di progettazione del reattore RBMK (in uso solo nella vecchia URSS) la questione del rischio nucleare è diventata uno dei temi fondanti della retorica ambientalista che, però, ha spinto sempre più il ricorso alla generazione di elettricità utilizzando impianti a idrocarburi, soprattutto i cosiddetti turbogas per contenere le emissioni inquinanti, visto che il ricorso alle cosiddette rinnovabili è sempre stato marginale se non per il ricorso alla “vecchia” energia gravitazionale (leggi “idroelettrico”) che rappresenta la parte preponderante del comparto “energie rinnovabili” con fotovoltaico ed eolico che rappresentano, insieme, meno dell’8% della produzione energetica nazionale. È evidente che in una situazione simile un rincaro dei prezzi degli idrocarburi porta a cascata a un rincaro di ogni prezzo legato al comparto energetico (e in prospettiva a tutti i prezzi).
La retorica NIMBY, spacciata abilmente da alcune fazioni politiche come una corretta richiesta a sfondo ecologico, ha ridotto al minimo le estrazioni di gas dal mar Adriatico, impedito, nel corso degli anni, l’installazione di sistemi di rigassificazione strategici lungo le coste e, per poco, non ha bloccato la realizzazione del raccordo del gasdotto TAP che, oggi, è una delle vie per l’approvvigionamento alternativo di gas naturale.
Tutto questo ha portato a un mix energetico sbilanciato e dipendente da pochi fornitori (diciamo principalmente a uno) che ha contribuito all’onerosità delle bollette in Italia.
Aggiungiamo che le quote più rilevanti sono sempre stati degli elementi fiscali, anche se nascosti dietro altri nomi: oltre ad accise e IVA, infatti, anche gli “oneri di sistema” altro non sono che una componente fiscale che, in totale, vanno a rappresentare quasi un quarto del prezzo finale.
Va anche ricordato che anche dalle altre voci, però, andrebbe scorporata la componente fiscale che dalle aziende produttive viene traslata sul prezzo finale, non sarebbe azzardato, quindi, pensare che la maggior parte del prezzo provenga dall’azione dello stato che finge da moltiplicatore dei prezzi (sì anche l’eventuale imposta sugli “extraprofitti” rientrerebbe in questo) che, alla fine, va a rendere sempre più onerosa la bolletta energetica di famiglie e imprese e a rallentare la decrescita dei prezzi qualora le quotazioni sul mercato crollino.
Sui carburanti il discorso è similare ma ancor più esplicito. È noto che, prima dello “sconto” sulle accise di 30,5 centesimo al litro stabilito dal governo Draghi, circa il 70% del prezzo dei carburanti fosse di origine fiscale, tra accise, imposta di fabbricazione carburante e IVA al 22% (che si applica anche alla componente fiscale) e anche ora funga da moltiplicatore sul costo finale poiché il margine lordo per le aziende petrolifere sia piuttosto ridotto (0,8% sulla benzina e 0,9% sul diesel circa).
Nonostante i tumultuosi eventi che si sono visti negli ultimi mesi, quindi, resta sempre lo stato ad essere il primo price maker nel settore energetico, mediante la politica fiscale e le decisioni di politica energetica ed è evidente che questa deve essere uno dei veri punti cardine dell’azione del nuovo governo se, veramente, punti a rilanciare l’Italia e non cianciare, come tanti, su decrescite (in)felici o su faraonici piani sulle energie rinnovabili senza mai arrivare al dunque.
Ah, giusto, ci si chiedeva perché il gasolio, ora, costi ben più della benzina… semplicemente perché ce ne è meno ed è richiesto anche per trazione commerciale, militare e per la generazione energetica. Da un barile di petrolio (159 litri) solo il 23% diventa gasolio, sono circa 36,5 litri, mentre il 43% diventa benzina, circa 68 litri, ecco perché con la crisi da approvvigionamento di gas il gasolio si sia apprezzato più della benzina.