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Spesa, debito e rating… ma domani?

Partiamo da due notizie positive: il 23 ottobre Standard&Poor’s ha confermato il rating all’Italia a BBB e il 6 novembre anche Moody’s ha confermato il rating Baa3 entrambe con outlook stabile. Questo cosa significa? Semplicemente che il nostro debito, per quanto in crescita vertiginosa per la spesa di contrasto alla pandemia, viene ritenuto solvibile sebbene problematico anche se la postilla “grazie al sostegno di Bce e Ue” è estremamente significativa.

Non è, ovviamente, questo il momento per valutare l’operato del governo finora, anche se non si possa dire che lazione non sia stata fortemente opinabile, ma è, forse il caso, partendo dai giudizi delle due agenzie, provare a fare uno sforzo previsionale su quello che sarà, domani, il ritratto del Paese. Innanzitutto, nonostante l’outlook stabile, anche se condizionato dall’azione delle autorità europee, il giudizio di Moody’s è pur sempre l’ultimo relativo al cosiddetto “investment grade”, gli investimenti sicuri, prima di piombare nel gruppo dei junk bond, i titoli speculativi, non certo un giudizio positivo o che possa dare una certa sicurezza di azione.

A questo, va aggiunto, che i tassi di rendimento richiesti dai titoli di stato italiani, sul decennale, siano i più alti in Europa, escludendo Grecia, Repubblica Ceca e Ungheria, che, al di là di una certa propaganda che si può leggere sui social in questi mesi, il mercato giudica più rischiosi e meno convenienti i titoli italiani rispetto a quelli di altri stati facenti parte dell’Unione, fosse anche solo per lo stock di debito che ad agosto ha toccato la soglia record di 2579mld di euro e che punta a toccare livelli ben superiori in termini assoluti al 31 dicembre.

Perché indicare i termini assoluti che, in realtà, vogliono dire poco dato che l’indicatore di stabilità finanziaria principale è il rapporto debito/PIL? Semplicemente perché, partendo dalla constatazione che da quasi 15 anni l’Italia non è più riuscita a crescere in termini reali, se non per la crescita della spesa pubblica e del saldo positivo della bilancia commerciale che, però, deriva da una contrazione dei consumi interni, e che il livello del prodotto interno lordo a fine anno è ancora un’incognita dopo il lockdown tra marzo e maggio e le misure contenitive della seconda ondata che potrebbero portare l’ipotesi di un -10% su base annua ad essere non un valore limite ma un auspicio, è difficile ipotizzare un valore credibile anche se il debito dovrebbe assestarsi tra un 155% e un 160% del PIL.

Moody’s stessa indica che le previsioni per il contenimento dell’epidemia sposteranno la ripresa dalla seconda metà del 2020 al 2021 e che avranno un suolo centrale nel sostegno dell’economia sia la politica monetaria accomodante della BCE sia i fondi europei che saranno messi a disposizione. Il punto focale, però, è che gli oneri sul debito peseranno a lungo sull’Italia, frenando la possibile ripresa. Non si può nascondere che il governo Conte, nelle sue varie incarnazioni, sia stato più attento all’assistenzialismo e a un certo giustizialismo che agli investimenti e alle politiche di crescita. Mentre la spesa corrente aumentava per le varie “riforme” apportate poco si è visto per gli investimenti e per una reale riforma fiscale, fosse anche solo per una razionalizzazione dei balzelli e delle scadenze, e questa eredità sarà portata anche nel post COVID sempre che, complici le regole di accesso al Recovery Fund, l’azione di Governo non subisca una svolta nei prossimi mesi.

Mentre la BCE continua a mantenere una politica monetaria accomodante e a stabilizzare il mercato dei titoli di stato, l’Unione Europea ha effettivamente messo in campo risorse importanti per fronteggiare questa crisi. Già solo il programma SURE per il sostegno dell’occupazione e il MES nella sua ultima versione a sostegno degli investimenti sanitari, che per un’ottusa opposizione ideologica alcune componenti della maggioranza (e dell’opposizione, diciamolo per onestà intellettuale) non vogliono, rappresentano un vero cambio di passo da parte dell’Unione, così come la sospensione dei parametri di finanza pubblica stabiliti dal Trattato di Maastricht ma sarà con il Recovery Fund che si vedrà il vero sostegno alla ripresa, sempre che esso arrivi.

Il condizionale è d’obbligo poiché la concessione dei finanziamenti, siano essi a fondo perduto o a tasso agevolato, sono sottintesi alla presentazione di un piano di riforme, il cosiddetto recovery plan, che deve essere validato dalla Commissione con una doppia maggioranza dei componenti, per teste e per rappresentanza. Per poter accedere al fondo, quindi, occorrerà presentare dei progetti volti alla crescita e alla sostenibilità della finanza pubblica, di qui anche l’addio a certe “riforme” di bandiera come Quota 100, di cui è già stato annunciato il non rinnovo a scadenza del periodo di sperimentazione, e il Reddito di Cittadinanza.

Se il 2020 è stato caratterizzato dall’emergenza sanitaria, il 2021 vedrà in agenda la risoluzione delle criticità che la pandemia avrà lasciato come conseguenza, criticità a livello produttivo e occupazionale. Qui si vedrà se le attuali forze di governo abbiano la capacità di creare quell’humus necessario alla ripresa. Intanto aspettiamo il 4 dicembre per avere il terzo giudizio sul rating, quello di Fitch.

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