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Spaventati dal drago cinese

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Da qualche tempo ci siamo abituati a notizie continue sull’andamento degli indici borsistici cinesi, almeno da quando non si è verificato un vero tracollo delle borse che hanno “bruciato” una mole consistente di miliardi di dollari. Perché “bruciato” tra virgolette, però? La risposta è più semplice di quanto sembri anche se i media preferiscono titoli a effetto, benché concettualmente errati, per richiamare audience. Il concetto base è che, come per l’energia, nulla si crea e nulla si distrugge, in borsa, semplicemente si verifica una mutazione di stato; in altre parole la finanza non crea e non distrugge ricchezza ma la rialloca semplicemente. Da qui cominceremo il ragionamento su quello che è successo.

A fine agosto, improvvisamente, l’indice di Shangai (SSE), il principali indicatori dello stato della finanza cinese, ha subito un repentino drawdown, come si dice in gergo, cioè una caduta dei valori. Immediatamente la défaillance orientale si è propagata su tutti i mercati amplificandone la portata. I telegiornali e i quotidiani, poi, ne hanno riportato un’immagine quasi apocalittica anche se, in effetti, sui mercati esteri le conseguenze sono state minori di quanto il sentire comune possa immaginare. Parliamo di numeri a questo punto poiché, spesso, aiutano più di mille parole.
Osserviamo, innanzitutto, l’indice principale cinese. A ottobre del 2014 il SSE si quotava intorno ai 2’400 punti e da fine novembre è iniziata una corsa al rialzo che si è conclusa a metà giugno 2015 oltre quota 5’000. È evidente, a questo punto la portata della crescita del mercato mobiliare cinese che ha più che raddoppiato la capitalizzazione di borsa in poco più di sette mesi. Raggiunti questi livelli era credibile una correzione per la “presa di beneficio” di molti investitori ma la discesa è stata ben più significativa.

Tra metà giugno e i primi di luglio l’indice scende sotto i 4’000 punti, perdendo oltre il 20% in due settimane, e punta ai 3’500 già dopo pochi giorni. La volatilità, cioè la mancanza di un vero trend crescente o decrescente che sia, aumenta nelle settimane seguenti fino a generare un nuovo crollo a metà agosto che spinge il SSE sotto i 3’000 punti per riprendere una crescita nei giorni seguenti verso i 3’150 di metà settembre, più o meno quanto l’indice quotava a inizio anno.

Come si può facilmente intuire la crisi finanziaria che si è verificata in queste settimane ha, di fatto azzerato i guadagni annui (year to date, YtD) realizzati dalla borsa cinese che ha perso, di fatto, oltre un terzo della capitalizzazione massima raggiunta in luglio per riportarsi sui livelli di gennaio anche se ancora in netto guadagno se si considerasse un periodo di tempo più lungo, diciamo sull’anno (year to year, YtY) dove si può benissimo considerare in guadagno di oltre il 30%.

Diciamo che, quindi, il “terremoto” borsistico che si è scatenato altro non è stato che una violenta correzione di un mercato che era cresciuto in maniera troppo repentina e, in qualche maniera, “drogata”. I valori raggiunti, infatti, sono stati spinti da una bolla di liquidità creata da una politica monetaria molto espansiva e da fenomeni di shadow banking che, nel corso di pochi anni, hanno immesso liquidità sul mercato pari a oltre il 285% di quella immessa dalla FED e dalla Bank of Japan insieme. Questa massa di valuta deve essere remunerata e di qui all’investimento finanziario il passo è breve, soprattutto se ci si aggiungessero gli stimoli statali che la Cina ha operato per sostenere i propri indici borsistici.

Con una crescita di oltre il 100% del valore degli investimenti, rispetto solo al novembre 2014, raggiunta a giugno è evidente che gli operatori abbiano iniziato a monetizzare gli asset investiti e i numeri parlano chiaro: da metà giugno l’indice è sceso, in sole due settimane, di oltre un quarto della capitalizzazione per, poi, avere il vero crollo a fine agosto. Come si diceva prima, però, i miliardi usciti dal mercato cinese non sono stati “bruciati” ma solo liquidati in attesa di nuova collocazione.

Il perché è abbastanza intuitivo, la Cina sta entrando in una fase di consolidamento del mercato interno, troppo sbilanciato sull’export e, quindi, incapace di reagire agli shock della domanda estera quando questa, per un motivo o per l’altro, si riduca. Sicuramente non si tratta di una crisi vera e propria ma di una modificazione di scenario per cui l’obiettivo prossimo del governo non sarà più quello di attirare nuovi capitali ma di costruire una domanda interna spingendo verso l’alto i redditi, diminuendo il tasso di concentrazione della ricchezza per permettere che la domanda interna possa creare un mercato compensativo agli shock esogeni.

Il futuro della Cina, quindi, dovrebbe andare verso quello di un mercato meno competitivo a livello di “costo della manodopera” e più focalizzato sul valore aggiunto delle produzioni e sulla creazione di quella classe media interna che, oggi, riguarda sì una platea di persone pari agli abitanti di tutta Europa ma che lascia ancora oltre un miliardo di esseri umani in uno stato di economia di sussistenza ed esclusi dal mercato e dalla soddisfazione non dico dei bisogni primari ma di tutti quelle aspirazioni che distinguono l’uomo dal resto del mondo animale.

Detto questo sarebbe interessante vedere che conseguenze ha avuto lo scossone dato dalla Cina ai mercati occidentali e partirei dagli indici di Wall Street: il Dow Jones (NYSE) e il NASDAQ
L’impatto del crollo cinese ha avuto un impatto immediato in entrambi gli indici, portando una caduta di circa un 10% per il Dow Jones e di circa un 12% per il NASDAQ che, però, hanno riagguantato subito un trend crescente, riducendo la perdita a circa il 9% il primo e a circa il 6% il secondo, risultati che sono compatibili a una mera correzione del mercato in attesa della ripresa del trend secolare di crescita.

Assai interessante, poi, è l’andamento del principale indice italiano, il FTSEMib, in questo periodo piuttosto convulso. Come tutte le borse mondiali, anche Milano non si è sottratta a quello che si può definire butterfly effect, il battito d’ali di farfalla che all’altro capo del mondo diventa una tempesta. Il 24 agosto l’indice principale ha perso circa il 12% per, poi riprendere a salire e assestarsi a un incremento da inizio anno pari al 14%, ampiamente positivo, quindi.

In definitiva il “crollo” dell’indice cinese non ha avuto grandi ripercussioni sui mercati principali nel resto del mondo ponendolo considerare una causa di una mera correzione di fine estate, ben più importante sarà il rallentamento dell’industria cinese dovuta al processo di consolidamento del mercato interno e di riassesto del modello industriale, cosa che si ripercuoterà soprattutto sui cosiddetti mercati emergenti ed esportatori di materie prime che vedranno un calo importante della domanda nei prossimi semestri mentre i capitali continueranno a seguire le promesse di rendimento maggiori, forse, ora, tra Europa e USA che, tra l’altro, conquisterebbero un vantaggio competitivo enorme dall’apertura del mercato interno cinese con i loro prodotti ad alto valore aggiunto ma questa è un’altra storia.

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