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Fattori di rischio e utilizzo dei social: educare gli adulti per tutelare i più giovani

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Pochi giorni fa un terribile notizia ha rimbalzato attraverso tutti i media, portando prepotentemente l’attenzione sulla tragedia che si è consumata a Palermo, dove una bambina di soli 10 anni ha accidentalmente perso la vita per partecipare, così riportano i titoli, ad una qualche sfida lanciata sui social. Immediata la reazione dell’opinione pubblica che si è scagliata contro la piattaforma in questione, al punto che il Garante per la protezione dei dati personali ne ha disposto il blocco per tutti gli utenti la cui età non fosse verificata. Già, perché per poter iscriversi ad un qualsiasi social network è prevista un’età minima che varia da piattaforma a piattaforma e che in Italia è stata fissata ai 14 anni grazie ad un decreto emesso il 20 settembre 2018… peccato che, troppo spesso, il limite venga aggirato dai ragazzi e dai genitori stessi e i social siano stracolmi di utenti di età inferiore persino ai 10 anni. A pensarci bene, già questo punto di partenza potrebbe essere considerato a tutti gli effetti il primo grande fattore di rischio!

Senza entrare nei dettagli della tragedia avvenuta, per la quale si stanno già muovendo le autorità competenti per verificare se esista un livello di responsabilità della piattaforma coinvolta, è utile riflettere sugli eventuali altri fattori di rischio che possono portare ad un utilizzo non controllato dei Social Network da parte dei più piccoli, poiché, indipendentemente dalla presenza reale o presunta di “challenge” che istighino a compiere gesti estremi, immaginarsi che la colpa sia esclusivamente di un insieme di server che sono programmati per la raccolta e la condivisione di immagini o video non è l’approccio giusto ad un problema decisamente più ampio.

A fronte di uno scorretto utilizzo di social e devices non c’è solo il mancato rispetto delle regole di iscrizione o l’utilizzo di uno strumento che, tecnicamente, non dovrebbe essere affidato ai ragazzi senza un controllo adulto fino ai fatidici 14 anni, c’è soprattutto una mancata educazione di base alla “relazionalità consapevole”. Sia per una questione di età anagrafica, sia per una questione di una progressiva e tragica diminuzione delle relazioni interpersonali nella vita reale, i più giovani fanno una reale e concreta fatica a distinguere tra ciò che accade nella vita reale e ciò che accade dietro lo schermo.

A meno che gli adulti non perdano parte del loro tempo a spiegare che un like sotto ad una foto non corrisponde ad un’amicizia e che il numero dei follower o delle condivisioni dei contenuti non corrisponde al gruppo di amici che si dovrebbero poter frequentare al parco/oratorio/associazione sportiva, i ragazzi corrono il serio rischio di sovrapporre il reale al virtuale e di placare sui social la sete immensa di relazioni interpersonali che li accompagna nella crescita e nell’ingresso nell’età della preadolescenza, là dove il gruppo dei pari si costituisce come “casa” e i coetanei che la abitano come “famiglia”.

Sovrapporre gli amici in carne ed ossa con dei follower virtuali disorienta e confonde e può contribuire alla costruzione del pensiero che, per diventare parte del gruppo che trovo sui social, io (preadolescente) debba comportarmi come le persone che trovo sui social. Se volessimo tenere il conto, questo si potrebbe configurare come un secondo, prepotente, fattore di rischio.

Quando gli adulti sono distratti, i ragazzi non hanno una guida che li accompagni nella costruzione della loro alfabetizzazione emotiva, ovvero nella possibilità di conoscere e riconoscere le emozioni fondamentali e i campanelli di allarme che li accompagnano. Educare alle emozioni va spesso a braccetto con la costruzione del senso del limite data dalle regole educative che dovrebbero essere proposte fin dall’infanzia: così come un genitore insegna ad un bambino a non toccare il fornello acceso o a non arrampicarsi su una sedia in prossimità di una finestra aperta, inserendo un limite dato dalla regola, allo stesso modo i genitori dovrebbero insegnare ai ragazzi i limiti dell’utilizzo di social e devices.

Si dovrebbe partire dall’uso del linguaggio (così come non puoi sfogare la tua rabbia nel mondo reale insultando il tuo prossimo, allo stesso modo non lo puoi fare in un commento su un social) fino ad arrivare alla possibilità di riconoscere le sensazioni di disagio che certe immagini/contenuti e richieste inadeguate possono provocare e alla necessità di tutelarsi dalle stesse: così come non accetterei di partecipare ad una sfida pericolosa nella vita reale, devo essere educato ad affermare il mio “No” anche nel web, se serve, chiedendo aiuto agli adulti. Non insegnare ai ragazzi a conoscere e ad utilizzare il proprio bagaglio emotivo a tutela di se stessi nel mondo reale è il terzo, fondamentale, fattore di rischio per l’utilizzo scorretto del mondo dei social.

In molte situazioni legate al mondo dei Social e dei devices gli adulti commentano sgomenti “mi fidavo di lui/lei, non pensavo servisse il mio controllo!” e qui entra in gioco un importante errore di valutazione da parte degli adulti: i bambini e i preadolescenti non hanno, per fisiologia dello sviluppo del loro cervello, senso del limite. Le neuroscienze ci insegnano che questa capacità si sviluppa al termine della maturazione della corteccia prefrontale, il ché non avviene prima dell’adolescenza inoltrata. Questo fa sì che i ragazzi siano naturalmente portati ad agire in modo impulsivo e imprevedibile sia per la presa di decisioni positive, sia per quelle negative; il controllo dell’adulto deve continuare ad essere presente, pur lasciando la libertà allo sviluppo individuale dei ragazzi!

Oltre a questo aspetto neurobiologico, si deve anche tener presente che l’ingresso in preadolescenza e in adolescenza non sono passaggi semplici e potrebbero verificarsi degli stati di malessere che possono interferire con la capacità dei ragazzi di modulare le loro risposte impulsive, basti pensare al terrificante aumento dei casi di autolesionismo o tentato suicidio che si stanno verificando in questo periodo storico e che sono tragicamente legati al profondo malessere di adolescenti e preadolescenti causato dall’eccessiva e prolungata condizione di isolamento sociale e relazionale dovuta alla pandemia (si vedano le dichiarazioni degli ospedali Gaslini, Sacco e Bambin Gesù da novembre 2020 ad oggi).

Gli adulti hanno il compito di vegliare su questi stati di malessere, per poterli cogliere attraverso le azioni dei ragazzi e, se necessario, intervenire prima che si cronicizzino o si trasformino in tragedie. Purtroppo però, gli adulti stessi sono distratti dalla vita e offrono i social e i devices come elementi di intrattenimento per non “sentire” le lamentele dei ragazzi, ma se non ci si ascolta non ci si vede e, quindi, il malessere non può essere parlato, solo agito. Siamo al quarto ed ultimo, fondamentale, fattore di rischio.

Marina Zanotta: