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Shock petrolifero del 1973: la fine dei “trente glorieuses”

Nell’ottobre del 1973 scoppia la quarta guerra arabo-israeliana, nota come “Guerra del Kippur”. Per protesta contro il massiccio invio di armi a Israele da parte degli Stati Uniti attraverso un ponte aereo, l’Egitto e la Siria convincono i Paesi arabi dell’OPEC (Organization of the Petroleum Exporting Countries) ad aumentare del 70% il prezzo del petrolio, riducendone progressivamente l’estrazione. Per il vero l’OPEC nel suo insieme già dalla sua fondazione nel 1960 si era proposta di rendersi autonoma nelle decisioni di definire il prezzo del petrolio e la quantità estratta, liberandosi progressivamente dal controllo delle compagnie occidentali, le potenti “sette sorelle”, contro le quali si era battuto l’ENI di Enrico Mattei, che, ormai, però, controllano poco meno della metà del petrolio offerto sui mercati internazionali.

Nel giro di soli tre mesi il prezzo del barile di petrolio si quadruplica, investendo e rischiando di travolgere le economie dei paesi occidentali, nel loro insieme, compresa l’Italia ed esclusi gli Stati Uniti, fortemente industrializzati e privi di risorse petrolifere, per le quali il petrolio rappresentava quasi il 50% delle fonti energetiche.

È il famoso “shock petrolifero” che si accentuerà nei mesi a cavallo del 1978-1979, con la Rivoluzione iraniana, a seguito della fine ingloriosa della corrotta monarchia dello shah Reza Phalavi e del trionfo della rivoluzione islamica-komeinista. Pur senza l’intervento diretto dell’OPEC, in pochi mesi, il prezzo del barile di petrolio passa da 13 a 35 dollari.

Lo shock petrolifero non innescò una semplice pesante crisi economica, perché costituì l’elemento catalizzatore di profonde e durevoli trasformazioni geopolitiche mondiali, configurandosi come un vero e proprio cambio d’epoca. La crisi economica si configura con un’inedita e paradossale connotazione: recessione accoppiata all’inflazione, definita con il neologismo “stagflazione”, con contrazione degli investimenti, riduzione del PIL e incremento della disoccupazione.

L’economia mondiale è investita da una profonda crisi che ne scuote le fondamenta, dopo una trentennale fase di sviluppo ininterrotto, tanto da evocare, per la sua intensità e i suoi effetti, la crisi del 1929, che aveva drammaticamente determinato il crollo rovinoso del “mito del mercato autoregolato”, secondo la suggestiva definizione di Karl Polanyi.

Giungono a esaurimento così i “trente glorieuses”, come in Francia sono definiti gli anni di espansione economica senza precedenti successivi alla Seconda guerra mondiale, resa possibile, nel lungo periodo di pace, dal sistema monetario di Bretton Woods e dal basso costo delle fonti energetiche e delle materie prime. In questi “trent’anni gloriosi” si era avuta anche una forte crescita demografica, il cosiddetto Baby Boom, perché dopo la tragedia immane della guerra mondiale si era scommesso di nuovo sulla vita.

Il trend di crescita aveva riguardato non solo i Paesi occidentali, ma anche quelli del blocco sovietico, almeno fino alla cosiddetta “stagnazione brezneviana” e, persino, l’universo vasto e variegato del Terzo Mondo, per il quale fu coniato l’eufemistico termine di “Paesi in via di sviluppo”.

La stessa grande enciclica “Populorum Progressio” di Paolo VI, del 1967, aveva riguardato i temi dello sviluppo. Uno sviluppo non solo economico, ma integralmente umano, nel quale i popoli tutti dovevano essere coinvolti. Non a caso tra le fonti ispiratrici privilegiate dell’enciclica vi erano le elaborazioni della rivista, animata da padre Louis Lebret, che nella testata recitava, “Économie et Humanisme”. In Italia nel trentennio si erano avuti la rapida ricostruzione, il Miracolo economico e a cavallo degli anni Sessanta e Settanta, le grandi lotte sociali che portarono per alcuni anni al superamento della perdurante mortificazione salariale.

Contraddicendo le teorie keynesiane e gli insegnamenti pratici del New Deal di Franklin Delano Roosevelt sono messe in campo solo politiche di austerità e di contrazione dei consumi che portarono nei paesi più industrializzati a un forte calo della produzione, calcolato intorno al 10%.

Come esito di lunga durata nei decenni successivi, dagli anni Ottanta, si consolida il processo di finanziarizzazione dell’economia, grazie anche all’attrazione di una massa di capitali dai paesi produttori di petrolio, i cosiddetti “petrodollari”, che certamente forniscono un sostegno alla bilancia dei pagamenti, ma, al contempo, innescano disordini nel mercato finanziario, reso instabile dalla fine, nel 1971, del sistema postbellico dei cambi fissi. Ne conseguì negli ultimi decenni del secolo la messa in discussione dell’economia mista, definita in Germania, “economia sociale di mercato, che prevedeva a fianco della proprietà privata anche quella cooperativa e pubblica, sancita in diverse costituzioni postbelliche europee, in primis quella italiana, con un progressivo smantellamento dello Stato sociale.

In positivo, tuttavia, le variegate misure di austerità, per il vero più imposte come sacrifici, che come nuovi  stili di vita e di consumo, sollecitano a ripensare modi di pensare e visioni del mondo e della storia. L’idea della crescita inarrestabile e illimitata comincia a essere messa in discussione, anche a livello di senso comune, dopo che a livello intellettuale era stata già oggetto di riflessioni. Il Club di Roma, animato dal manager Aurelio Peccei, nel 1972, aveva commissionato e pubblicato in ben 30 lingue il Rapporto sui limiti dello sviluppo, certificando, con la potenza dei dati, gli esiti apocalittici conseguenti per il mondo intero qualora fosse proseguito costante il tasso di crescita, di produzione, d’inquinamento e di sfruttamento delle risorse non rinnovabili.

Per quanto riguarda specificamente l’Italia, ha scritto al riguardo Alberto Arbasino nel libro, “Il paese senza”: “Come verranno giudicati gli anni Settanta […], il decennio delle prime grosse perplessità sui valori mai seriamente messi in dubbio prima, come lo sviluppo e il progresso e la crescita?”.

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