A fine marzo viene a scadenza il blocco dei licenziamenti che è durato un anno. Si tratta di un provvedimento che in Italia è stato adottato nell’immediato dopoguerra, mentre durante la pandemia da covid-19 nessun altro Paese si è infilato in questo cul de sac da cui diventa sempre più difficile uscire. I sindacati nel loro incontro con Draghi nel corso delle consultazioni preliminari non hanno rinunciato a chiedere una proroga opponendosi alla possibilità – fino ad ora rimaste nel vago – di misure selettive (non si dimentichi che già il precedente governo si era incamminato su questa strada collegando il blocco dei licenziamenti all’uso della cig da Covid).
Su questo problema Draghi non si è pronunciato e correttamente anche il neo ministro del Lavoro Andrea Orlando – che ha voluto incontrare subito i sindacati – non ha voluto confermare l’avventurismo della ministra Nunzia Catalfo che, in una intervista, aveva promesso una proroga del blocco senza una scadenza definita. Il premier tuttavia ha tracciato in modo netto il perimetro entro il quale il suo governo intende affrontare la questione cruciale del lavoro.
Innanzi tutto nel suo discorso Draghi ha indicato un preciso collegamento tra la crisi sanitaria e quella dell’economia nel senso che è principalmente il “vincolo esterno” delle misure di mitigazione del contagio a determinare il crollo del Pil e la disoccupazione, per ora causata in prevalenza dalle mancate assunzioni e rinnovi dei contratti a termine. Ciò mentre la flessione dei contratti a tempo indeterminato è iniziata negli ultimi mesi del 2020 pur riscontrando ancora un dato positivo su base annua.
Ed è proprio l’analisi della crisi sanitaria ad orientare le altre scelte. “Uscire dalla pandemia non sarà come riaccendere la luce. Questa osservazione, che gli scienziati non smettono di ripeterci, ha una conseguenza importante. Il governo – osserva Draghi – dovrà proteggere i lavoratori, tutti i lavoratori, ma sarebbe un errore proteggere indifferentemente tutte le attività economiche. Alcune dovranno cambiare, anche radicalmente. E la scelta di quali attività proteggere e quali accompagnare nel cambiamento è il difficile compito che la politica economica dovrà affrontare nei prossimi mesi’’.
Udite queste parole si sperava che il governo intendesse lasciarsi alle spalle la prassi dei ristori a piaggia dalla quale il Conte 2 non era stato in grado di uscire, nonostante che fossero chiarite le finalità delle risorse provenienti dal NGEU: lo sviluppo e le riforme senza continuare a usare l’assistenzialismo come una linea di politica economica. Invece, fin dalle prime mosse del nuovo esecutivo emerge una linea di continuità con la politica delle chiusure e dei ristori compensativi. La solita storia, per ora. I provvedimenti assunti, a debito, nella sfilza di decreti approvati lo scorso anno (ogni volta con il corredo di uno scostamento di bilancio) – in particolare proprio il blocco dei licenziamenti, la cig da Covid-19 ed i ristori – avevano proprio questo limite culturale: passata la nottata tutto tornerà come prima. Sappiamo che non è così e Draghi lo ha ammesso esplicitamente.
I problemi però ci sono. Ma vengono indicate anche le terapie; e il monito ad imboccare la strada maestra. “Centrali sono le politiche attive del lavoro. Affinché esse siano immediatamente operative è necessario migliorare gli strumenti esistenti, come l’assegno di riallocazione, rafforzando le politiche di formazione dei lavoratori occupati e disoccupati. Vanno anche rafforzate le dotazioni di personale e digitali dei centri per l’impiego in accordo con le regioni. Questo progetto è già parte del Programma Nazionale di Ripresa e Resilienza ma andrà anticipato da subito’’. La crisi non è “una notte in cui tutte le vacche sono nere’’.
Vi sono settori che hanno avuto uno sviluppo durante la crisi (la filiera agro-alimentare, le telecomunicazioni, ecc.). E in generale quando è stato consentito di lavorare l’apparato produttivo ha dimostrato una interessante vitalità, spesso non prevista. Analogo discorso vale anche per i servizi privati e alla persona. Quando è stato loro consentito di lavorare, hanno dimostrato di essere in grado di farcela in autonomia. Va trovato un punto di equilibrio migliore tra il contenimento del contagio e l’attività economica. Non è accettabile che sia la legge a condannare a morte attività sane e a determinare una disoccupazione di Stato.