Sono passati sette anni dal sisma che ha colpito il centro Italia, provocando la morte di 299 persone e sconvolgendo la vita di migliaia di cittadini. Lo conosciamo tutti come “il terremoto di Amatrice” perché il paese del Lazio ha pagato il tributo più alto, in termini di danneggiamento e di vittime, ma non bisogna dimenticare che l’evento colpì tutta l’alta valle del Tronto e buona parte del territorio marchigiano. Sei anni fa, in questo giorno, non potevamo saperlo ma nell’ottobre successivo altre violente scosse avrebbero ampliato ulteriormente l’area danneggiata.
Per questo il processo di ricostruzione è stato (ed è) particolarmente complesso e, da ex commissario, posso testimoniare quanto sia stato difficile far camminare una macchina burocratica complessa – con quattro Regioni e 138 Comuni interessati – e spesso rallentata da un coacervo di leggi e norme bizantine che più di una volta hanno messo i bastoni tra le ruote a chi cerca solo di tornare alla normalità il più presto possibile. Oggi possiamo dire che la ricostruzione sta procedendo con passo più spedito, seppure rimangano alcuni problemi: uno di questi è il bonus 110%, poi tramutato in 90%, che ha portato molte ditte a dare priorità a questi ultimi cantieri, mettendo in secondo piano quelli post-sisma. La lentezza di queste procedure ha delle conseguenze reali, tangibili sulla vita dei cittadini. Un esempio: a fine 2023 scadrà il termine per presentare i progetti di ricostruzione privata, pena la perdita del Cas, il contributo per l’autonoma sistemazione. Molti cittadini sono in ritardo e allo stato attuale la lunghezza delle procedure non è compatibile con l’urgenza delle scadenze.
Dopo sette anni è però anche giusto ricordare quanto di buono è stato fatto: quasi in tutti i Comuni del cratere ad esempio è stata completata la microzonazione sismica di terzo livello. Si tratta di uno straordinario lavoro di prevenzione che permette di calcolare, nel massimo dettaglio, il modo in cui il terreno reagirà alle prossime scosse sismiche. Nei territori colpiti viene anche svolta un’analisi dettagliata delle aree in frana, dove di fatto è impossibile edificare. Questo significa ricostruire in sicurezza, grazie al massimo grado di conoscenza del sottosuolo oggi raggiungibile: in futuro, l’imprevedibilità di un evento sismico non potrà più essere un alibi per giustificare case e infrastrutture fortemente danneggiate. È fondamentale però che la microzonazione venga realizzata anche nel resto del Paese, senza aspettare che si verifichino tragedie come sempre si è fatto finora. Più in generale dobbiamo pensare a mettere in sicurezza il territorio “in tempo di pace” e non in emergenza.
In un Paese a elevato rischio sismico come il nostro il ruolo dei geologi è ancora più fondamentale: il terremoto di sette anni fa ha dimostrato che, in alcuni casi, non conoscevamo abbastanza il nostro sottosuolo, con ripercussioni che talvolta sono state più gravi di quanto si potesse immaginare. Il caso di Pescara del Tronto, completamente cancellata a causa del particolare tipo di terreno su cui poggiava, che ha di fatto amplificato l’effetto della scossa, ne è un esempio. La ricerca non deve mai fermarsi, perché i terremoti non sono evitabili né prevedibili ma i suoi effetti possono essere mitigati, studiando le caratteristiche geologiche dei territori nel massimo dettaglio possibile. Per farlo occorrono investimenti, più soldi ai Comuni, più professionisti a sostegno degli uffici tecnici, una cabina di regia a livello regionale che monitori l’andamento degli studi e delle opere di prevenzione. Ma, tornando a Pescara del Tronto, dobbiamo anche interrogarci se davvero sia il caso di ricostruire “dov’era e com’era”: finanziando progetti dai costi faraonici che si potrebbero evitare, delocalizzando gli abitati di poche centinaia di metri.
Piero Farabollini, Presidente dell’Ordine dei Geologi delle Marche