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Il senso del viaggio del card. Zuppi a Kiev

Zelensky e il cardinale Zuppi in Vaticano. Foto: Vatican News

Forse certe citazioni non giungono a caso. Prima di partire per Kiev, dove ha potuto sondare che oltre l’ascolto si possono fare pochi passi avanti per la pace, il cardinal Zuppi ha avuto modo di ricordare la posizione espressa sulla guerra in Ucraina da Henry Kissinger. Ai più è sembrato qualcosa di azzardato, o per lo meno di inusuale: Kissinger lo ricordiamo in Italia per il suo ruolo nel golpe cileno di Pinochet, magari per la ruvida anelasticità di fronte al compromesso storico, insomma per tutto meno che per le doti di ascolto e di comprensione. E invece.

Invece questo discepolo di Metternich (non è una boutade, egli è in effetti uno dei massimi conoscitori ed estimatori del principe tedesco volto alla causa degli austriaci e della Restaurazione) questo discepolo di Metternich, dicevamo, predica ora la pace ed il dialogo, per mettere al bando la guerra dalla faccia dell’Europa e possibilmente del Pianeta. Lo fa, intendiamoci, nel nome del metodo che ha sempre invocato e che dalla esperienza del Congresso di Vienna trae linfa e radici: la pace attraverso l’equilibrio tra le potenze. La Realpolitik che sposa l’idealismo. Chi lo avrebbe mai detto. Lo si sarebbe detto, in realtà, se si fosse considerato un precedente: cosa che non si fa più dal giorno in cui la politica internazionale è stata elevata al rango di scienza esatta, ma questa è materia estranea alla riflessione di oggi. Ad ogni modo: il precedente kissingeriano c’era, e se lo si fosse considerato prima si sarebbe compresa meglio la contemporaneità. Era il 1973, Guerra dello Yom Kippur. Anche lì, si badi, Mosca minacciò l’uso della bomba atomica (nella fattispecie: se Israele avesse continuato l’avanzata verso il Cairo). Kissinger, ebreo tedesco scampato all’Olocausto perché riparato per tempo in America, fece grossomodo quel che il cardinal Zuppi ha fatto in queste ore: si presentò alle capitali coinvolte (non c’erano solo Tel Aviv e Il Cairo) quando apparentemente nemmeno un pertugio di possibilità era aperto, e iniziò ad ascoltare. Arrivava, ascoltava, partiva; atterrava, ascoltava, ripartiva. Così per settimane. La chiamarono Shuttle Diplomacy, la diplomazia della navetta. Pendolari per una giusta causa. Ora, pare che trovandosi in Medioriente l’allora Consigliere per la Sicurezza Nazionale americano non disdegnasse tecniche degne di un suk. Vale a dire: fu accusato di andare dall’uno imbellettando la posizione dell’altro a vantaggio della superiore causa della pace. Di ogni posizione, insomma, riferiva quel che a lui faceva più comodo. A chi gli rimproverava la metodologia, lui rispondeva senza mezzi termini: “Ho già visto un Olocausto, non voglio vederne un secondo”. A conclusione di racconto: al chilometro 101 della strada tra il Cairo e Gerusalemme, in una tenda, si trovò la pace. Cinque anni dopo il disgelo, poi ancora l’abbandono del Sinai da parte di Israele – a buon intenditor poche parole – e rapporti, se non normali, almeno accettabili.

È per questo che viene in mente Kissinger, a pensare al viaggio a Kiev del cardinal Zuppi: iniziare a parlare chissà dove poi porta. Ed è per questo che, avendo non visto un Olocausto ma i campi di sterminio li abbiamo visitati, ci auguriamo di cuore che non ci si fermi ora, anche se a Kiev non pare sia andata proprio bene. Salire in aereo, scendere, ascoltare. Ascoltare. Ascoltare. E se ci fosse bisogno di fare un po’ di suk, be’, va bene così: ad maiorem Dei gloriam. Appuntamento un giorno al chilometro 101 della strada tra Mosca e Kiev. Buona fortuna.

Nicola Graziani: