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Se Macron indossa il gilet

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C'’era una volta… Così potremmo iniziare il racconto di quello che sta accadendo in questi giorni in Francia, riferendoci all’elezione trionfale di Emmanuel Macron di poco più di un anno fa e alla sua parabola discendente in sede di consenso negli ultimi mesi.

Le misure annunciate di contenimento della spesa pubblica e di aggravio fiscale, come è noto, hanno provocato una reazione molto forte in parte della popolazione francese, storicamente piuttosto avvezza alle proteste plateali e talvolta violente contro provvedimenti giudicati ingiusti, tanto che monsieur le Président e l’esecutivo che ha nominato si sono trovati obbligati a una brusca marcia indietro arrivando a cedere su diverse istanze presentate dal c.d movimento dei Gilet Gialli.

Non si tratta solo della rinuncia agli aggravi delle accise su carburanti ed energia, cosa più che condivisibile, oltretutto, ma anche su altre richieste ben più pesanti a livello di conti pubblici. Il movimento, infatti, non si caratterizza come una fazione antitasse e contro l’intervento eccessivo dello Stato in economia, come l’originario Tea Party americano, ma come un’entità ben più complessa che unisce alla sacrosanta richiesta di uno stato meno costoso e più efficiente tutte le suggestioni e le rivendicazioni che, altrove, sono state incarnate dai movimenti populisti. Non è un caso, quindi, che siano guardati con favore sia dal Rassemblement National di Marine Le Pen sia dal Front de Gauche di Jean-Luc Mélenchon in un’insolita (ma neppure tanto) convergenza rossobruna.

Messo alle strette e, anche, cercando di riacquistare quella popolarità che ha perso nel corso dei mesi, il Presidente Macron ha ceduto alle proteste e si appresta a varare delle misure d’urgenza per soddisfare le richieste dei contestatori e per mettere fine al clima di tensione che si è creato in Francia nelle ultime settimane.

Oltre allo stralcio degli aggravi fiscali su carburanti ed energia, infatti, è stata programmata una rimodulazione del salario minimo perché possa aumentare di 100 euro al mese senza alcun aggravio per i datori di lavoro, quindi tramite una riduzione del prelievo fiscale. E' poi previsto l’annullamento della contribuzione sociale generalizzata (Csg) per i pensionati che guadagnano meno di 2.000 euro al mese estendendo il regime ora in essere a chi percepisca un assegno sotto i 1.200 euro al mese; inoltre si va ad annunciare la detassazione degli straordinari sul lavoro da gennaio e dei premi aziendali.

Fin qui tutto bello; qualunque riduzione del carico fiscale è, agli occhi dello scrivente, una buona notizia perché si vanno a lasciare più risorse “in tasca” ai cittadini e con questo a favorire consumi, risparmi e investimenti. Tuttavia non è possibile tralasciare quali coperture possano essere poste a contropartita dei minori introiti.

Come da copione si parla di una stretta sull’evasione fiscale e sul recupero delle somme sottratte al fisco; in più i dirigenti di grandi imprese francesi dovranno versare le imposte in Francia e così pure le multinazionali che facciano profitti nel Paese transalpino. Non è da oggi che misure simili possano sembrare ardue e, sicuramente, non sufficienti a coprire provvedimenti che secondo le stime riportate da Le Monde potrebbero avere un impatto pari a circa 10 miliardi di euro.

Secondo il quotidiano, così come secondo Il Fatto quotidiano qui in Italia che ne rilancia l’analisi, se l’ipotesi fosse confermata questa comprometterebbe gli accordi sui conti pubblici assunti con l’Ue; il deficit al 2,8% nel 2019 potrebbe essere “fuori portata” ma anche il tetto del 3%, stabilito dal Trattato non sarebbe più un limite considerato invalicabile, come parrebbe confermato da fonti vicine all’Eliseo.

La Commissione Ue, ovviamente, non è rimasta silente e il vicepresidente, Valdis Dombrovskis, ha dichiarato “Stiamo osservando da vicino le possibili nuove misure, ma non possiamo commentare prima che siano state formalmente annunciate e dettagliate”, seguito dal commissario per gli affari economici Pierre Moscovici che afferma che l’ipotesi che la Francia sfori il 3% “può essere presa in considerazione per un periodo limitato, temporaneo ed eccezionale”.

Alt! Non sembra che a questo punto qualcosa non torni? -2,6%, -3,3%, -7,2%, -6,9%, -5,2%, -5%, -4,1%, -3,9%, -3,6%, -3,4%, -2,6%.. Cosa sono queste percentuali? Sono i valori del rapporto deficit/PIL della Francia dal 2007 al 2017 che, come si nota, sforano il limite del 3% stabilito fin da Maastricht per nove volte su undici negli anni considerati.

L’Italia nello stesso periodo ha sforato il limite per sole tre volte, nel 2009, nel 2010 e nel 2011, negli anni peggiori della crisi economica. Persino con la manovra annunciata dal governo gialloverde quest’anno il limite non sarebbe neppure sfiorato, secondo le previsioni, eppure per Roma si annuncia una procedura di infrazione mentre per Parigi no, singolare?

Dipende…Il problema italiano nasce dal rapporto debito/Pil estremamente elevato, che viaggia oltre il 131%, mentre quello francese, se pur cresciuto molto negli ultimi anni, si attesta poco sotto il 100%, al 97% precisamente. Inoltre va sottolineato che l’Italia ha sempre violato i limiti di questo rapporto nella storia degli ultimi 23 anni (la Francia per 19 su 23, per essere onesti) e un ulteriore scostamento se non supportato dalla crescita altro non farebbe che peggiorare la situazione finanziaria.

I tendenziali, però, per quanto diciamo pessimi in Italia sono anche peggiori in Francia con il peso del debito passato dal 55% del Pil del 1995 al 97% attuale, con un incremento che non vede alcuna correzione nel tempo di 42 punti percentuali contro quello italiano, relativo allo stesso periodo, di 15 punti percentuali, dove, però, si era assistito a un’inversione di tendenza fino al 2007 quando il debito per l’Italia toccò il 99.8% per poi crescere di oltre 30 punti negli 11 anni seguenti in seguito alla crisi economica che, di fatto, bloccò consumi e investimenti decretando la più lunga recessione tecnica che la storia ricordi.

Proprio dal crollo di consumi e investimenti nasce la crisi della finanza pubblica italiana che, nonostante tutto, riesce a mantenere un avanzo primario significativo costante fin dagli anni ‘90, sorretto soprattutto dalla bilancia commerciale che è fortemente positiva, seconda solo alla Germania e contrariamente alla Francia che mostra numeri negativi fin dal 2005. Non fosse per il peso della servitù del debito pregresso, infatti, i bilanci italiani sarebbero più che virtuosi nonostante le regole contabili applicate, per cassa, che differiscono sostanzialmente da quelle, per competenza, utilizzate dalla Francia, così come previsto dalla Lolf del 2001, cioè la riforma dei criteri di bilancio pubblici inseriti sotto il governo Jospin.

Questa panoramica cosa vuol dire? Esiste, forse, una disparità di trattamento tra Francia e Italia? Anche qui la risposta potrebbe essere “ni” perché i numeri spot permetterebbero sicuramente una maggiore flessibilità di azione per i transalpini, cosa che con i livelli di indebitamento italiani non si dovrebbe nemmeno pensare se non in ottica di stimolo alla crescita, quindi non certo per finanziare misure assistenzialistiche come il reddito di cittadinanza o la quota 100 pensionistica. .

Inoltre il problema evidenziato dalla Commissione non riguarda il deficit nominale per l’anno 2019, quello che non dovrebbe sforare il tetto del 3%, ma il fatto che si voglia portare il deficit strutturale (quindi escludendo le misure una tantum come condoni fiscali, vendita di asset pubblici, etc.) a circa l’1.7% nel 2020, compromettendo il sentiero di rientro dall’esposizione debitoria nazionale in assenza di una crescita significativa.

Ciononostante, come già anticipato, i tendenziali francesi sono ben peggiori e la storia insegna come l’Italia abbia le capacità di gestire un indebitamento pubblico elevato quando per livelli decisamente più bassi altri Stati sono andati in forte crisi. Una disparità di trattamento, quindi, da parte della Commissione Ue sarebbe completamente fuori luogo. L’Italia non ha mai rispettato i parametri sul debito aggregato mentre la Francia ha (quasi) sempre sforato i limiti di deficit imposti dal Trattato, contando, poi, sull’ampliamento di G, la spesa pubblica, nell’identità del Pil per sostenere il livello di quest’ultimo.

Probabilmente la vera “bomba” finanziaria che gravita in Europa non risiede nello Stivale, benché ci si stia impegnando seriamente per esserlo, ma nell’Esagono e questo andrebbe considerato, ben al di là della credibilità e dell’autorevolezza dei rispettivi governi che, comunque, rappresentano un parametro importantissimo nella valutazione della sostenibilità finanziaria di uno stato, e questo dovrebbe essere il punto chiave dell’analisi della Commissione rispetto agli annunci di Macron.

Matteo Gianola: