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Se le parole perdono peso

Alcuni giorni fa il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, ha affermato di “prendersi la responsabilità” per tutto ciò che riguardava la cattiva gestione delle informazioni assunte dagli utenti del social network. Il fatto, lo ricordiamo, riguardava la possibilità che gli amministratori o, forse, i dipendenti di Fb abbiano tratto dati sensibili di coloro che utilizzano tale strumento informatico, cedendoli poi, contro legge, a società terze per usi commerciali.

Ma non è sulla liceità o sulla opportunità di tale comportamento che intendo riflettere, poiché diamo per accertato che quella attività era illegittima, se non addirittura illecita. Quello su cui mi interessa portare la attenzione è proprio l'espressione con la quale Zuckerberg appuntava su di sé ogni colpa.

Mi sono chiesto se quella, che certamente sembrava una scelta coraggiosa e che, di fatto, escludeva da ogni possibile colpa tutti i suoi collaboratori, fosse stata fatta ai fini solamente strategici. L'assunzione di ogni responsabilità da parte di un soggetto certamente induce a non indagare sugli altri, i quali resteranno estranei alle accuse, che comunque potranno riversare sul proprio capo. Quest'ultimo, a sua volta, agendo così protegge i propri dipendenti sia dal punto di vista morale che da quello giuridico.

Se così stanno le cose quali saranno le conseguenze per la persona fisica di Zuckerberg? Un grande imprenditore che ha creato meccanismi capace di stimolare rapporti, magari soltanto virtuali, di natura interpersonale ha compiuto quel gesto perché si sente intoccabile, perché realmente ha dato degli ordini illegittimi o ha fatto una affermazione sol perchè semplicemente perché vuole proteggere i propri dipendenti?

Quale che sia la risposta a questa domanda, certamente la sensazione netta è una sola: a Zuckerberg e come persona non verrà fatto nulla, rimarrà al suo posto più autorevole di prima, al più ci saranno sanzioni economiche sulla società il cui valore è talmente alto e funzionale ad una economia globalizzata che ogni pena non dovrà danneggiarne la funzionalità.

Fa riflettere, invece, che ad un'assunzione di responsabilità, nel sentire comune, non è legata una conseguenza, in caso di danno causato, negativa. Questa espressione è, ormai usata, in modo assolutamente superficiale. La valenza morale e sociale di tutto questo è davvero curiosa, “mi assumo la responsabilità” è quasi una formula magica  che lungi dall’accollarsi le conseguenze per azioni di demerito, lascia la strada alla libertà o addirittura concede una franchigia dei comportamenti. Forse Zuckerberg ha usato in modo astuto oppure sapiente quella espressione, ponendosi a scudo della propria società.

Ma la cultura comune ha ormai interiorizzato che ad assunzione di responsabilità non corrisponde, in caso di comportamenti deplorevoli, una conseguenza. In tv sentiamo sempre più spesso la litania del “i assumo la responsabilità di quello che dico” come se potesse esistere la possibilità che le parole non avessero peso. Ma forse è proprio questo che viene inteso, che nessuno ha colpa per quel che dice e quel che fa, che c’è sempre una giustificazione. E chi dice queste frasi poi si sente legittimato a comportarsi, al meglio, inopportunamente, considerando e facendosi considerare soggetto a cui non si può addebitare più nulla.

Uno strano meccanismo mentale per chi, come me, facendo il magistrato, riflette, come tutta la propria categoria fa, sul concetto che non c'è scelta se non c'è responsabilità e che alle conseguenze negative del proprio operare è legato un giudizio di altri sulla correttezza dei comportamenti con ricadute negative su valutazioni di professionalità e sull'intera carriera.

E, invece, tutti dovremmo comprendere che alle conseguenze negative del proprio operare deve esser legato, in una società evoluta, un giudizio degli altri, ma anche una castigo morale o una sanzione sociale. Se vogliamo riflettere su noi stessi cominciamo a considerare le nostre stesse parole: queste modellano la nostra vita ed il nostro modo di pensare, costruiscono la società in cui viviamo, fanno dell’uomo un essere sociale; la deresponsabilizzazione, la volontà di crearsi uno schermo, la scelta istintiva e non consapevole di nascondersi alle conseguenze dei propri gesti, peggiore persino della mala fede, passa per espressioni che plasmano la cultura di un sistema.

Paolo Auriemma, Procuratore della Repubblica di Viterbo

 

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