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Se gli ospedali chiudono, i privati aprono

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Quando si parla di razionalizzazione della spesa sanitaria, spesso, vengono in mente le chiusure di ospedali e di pronto soccorso locali per accentrarli in strutture di maggiori dimensioni; questo trend ha riguardato un po’ tutte le regioni italiane, portando intere zone a non avere più un presidio sanitario e dovendo far riferimento a strutture, a volte, anche piuttosto distanti con disagi e costi maggiori da sostenere per i cittadini. Ma è veramente così? La sanità italiana, a dispetto dei detrattori, è considerata tra le migliori al mondo (come certificato dal rapporto sull’efficienza del sistema di Bloomberg lo scorso anno), posizionandosi al 4° posto dietro Hong Kong, Singapore e la Spagna, superando di diverse posizioni anche la blasonata Svizzera (che si colloca al 12° posto) ma, in effetti, il dato considerato è un livello medio di servizio, mentre la varianza fra le regioni della penisola è elevatissima, tanto da poter descrivere tranquillamente due Italie, quella dell’eccellenza e quella della cosiddetta malasanità che si riscontra spesso sui giornali.

In questo quadro, dal 1988 quando l’allora ministro della salute Donat Cattin dispose la prima razionalizzazione dei posti letto, diverse strutture furono ridimensionate o, addirittura, chiuse creando un effettivo disagio nella popolazione. A onor del vero la creazione di un sistema efficiente e che possa garantire il livello essenziale di assistenza non è compatibile con una presenza fin troppo capillare e non supportata da vere esigenze territoriali o di popolazione ma un ragionamento, vero, sui costi e sulle alternative ai “piccoli ospedali” andrebbe fatto. Quando si dice che l’Italia spenda troppo per il settore non si sta, effettivamente, affermando un dato di fatto, poiché la spesa sanitaria, pari a 7.1% del PIL su dato 2015, pone lo stato perfettamente nella media europea, con altre nazioni ben più “spendaccione” e incapaci di ottenere lo stesso risultato, fosse anche solo per l’aspettativa di vita che nel Paese risulta essere tra le più alte del mondo.

Anche la sempre maggiore presenza di strutture private non può essere segnale di disservizio perché, come il caso Lombardia mostra, un sistema di sussidiarietà che permetta l’interazione tra privato e pubblico per il raggiungimento di un livello di servizio elevato è possibile e con vantaggi non indifferenti per la popolazione che, oltre ad avere una concorrenza virtuosa tra i presidi si trova ad avere un’ampia possibilità di scelta su dove farsi assistere. Il vero problema che si può riscontrare, come già anticipato, è la differenza qualitativa nel servizio esistente fra regione e regione e quella che viene chiamata la spesa “out of pocket”, quella che resta a carico del cittadino una volta pagate le imposte. A oggi i tre quarti della spesa sono coperti dal Servizio Sanitario Nazionale, quindi dalla fiscalità generale, ma circa un quarto restano a carico dei singoli pazienti, tra ticket e spese accessorie, l’intermediazione delle polizze sanitarie o dei fondi sanitari integrativi (solitamente concessi come benefit aziendali, come i dipendenti bancari, ad esempio, sanno bene) è residuale e copre solo il 3% della spesa lasciando il resto a carico dei risparmi delle famiglie che è un punto dolente laddove la pressione fiscale superi da anni abbondantemente il 42% del prodotto interno lordo dello Stato, contribuendo a schiacciare i redditi degli individui.

Questo costo ulteriore, poi, viene aggravato dalla necessità, in alcuni casi, di doversi rivolgere a strutture distanti dalla propria residenza, per necessità logistica (mancanza di presidi nelle vicinanze) o per scelta (ricerca di reparti migliori in strutture diverse da quelle di riferimento) cosa che viene ancor più
amplificata dalla predetta varianza di livelli di efficienza del servizio sanitario. Sì, nelle regioni più efficienti, dove il disavanzo del settore fosse minimo o inesistente come al nord, i problemi sono molto più contenuti perché le possibilità di finanziamento, anche di presidi più piccoli, sono maggiori e la presenza di strutture private convenzionate permettono di supplire alla mancanza di quelle pubbliche, nelle altre la questione diventa assai più critica costringendo, spesso, a doversi spostare anche di molti chilometri anche solo per trovare un punto nascita in caso di gravidanza a termine. Questo si traduce, tirando un po’ la definizione, in una sorta di tassazione indiretta, poiché si vanno ad ampliare i costi relativi a un servizio che dovrebbe essere garantito ponendoli a completo carico dei cittadini visto che spostamenti ed eventuali pernottamenti fuori sede non producono alcun beneficio fiscale.

Che fare a questo punto, si potrebbe dire parafrasando Lenin? Proprio il contrario di quello che uno dei padri del comunismo andava a predicare, un modello efficiente e che, a tutti gli effetti, ha creato più vantaggi che disagi è quello, già richiamato in precedenza, esistente in Lombardia dove, dal 1997 in avanti, si è promosso un principio di sussidiarietà solidale per assicurare l’erogazione uniforme dell’assistenza sanitaria: il privato entra così nel Servizio Sanitario Regionale per cooperare alla pari con le strutture pubbliche e assicurare oltre la libertà di scelta del cittadino anche una copertura più capillare del servizio sanitario stesso che non sarebbe stata possibile lasciando il tutto a carico completamente del settore pubblico.Contrariamente a quanto sostenuto da alcuni, infatti, non si tratta di una privatizzazione ma di una liberalizzazione del settore che, spingendo la concorrenza virtuosa, porta sia a un abbassamento dei costi per il pubblico e alla possibilità di erogare servizi migliori a tutti. Non è un modello perfetto, ovviamente, ma perfettibile e sicuramente un passo avanti per poster garantire la sostenibilità di un servizio essenziale nel lungo periodo.

Matteo Gianola: