Al momento della morte, il 21 settembre 1990, Rosario Livatino, 38 anni ancora da compiere, è un magistrato che vive a Canicattì, comune di 40.000 abitanti in provincia di Agrigento, dove operano numerose cosche di mafia, in conflitto fra loro. Lavora ad Agrigento da 12 anni, ed è il punto di riferimento dei colleghi dell’ufficio, per saggezza e preparazione: il contrario di un “giudice ragazzino”, come ancora adesso lo qualifica chi ha scarsa conoscenza del suo profilo.
Dapprima quale pubblico ministero, poi – nell’ultimo anno di vita – quale componente di un Collegio giudicante, svolge indagini e pronuncia sentenze a carico degli esponenti mafiosi del territorio, inclusi quelli che vivono a pochi metri da casa sua, e dispone il sequestro e la confisca dei loro beni. Lo fa in un Tribunale che ha cinque posti scoperti su undici di organico, con mezzi materiali limitati, senza tutela personale, applicando le poche scarne norme dell’epoca di repressione della criminalità mafiosa. Non può fruire delle propalazioni dei “pentiti”, né su un obbligatorio coordinamento di indagini, perché non erano ancora state approvate le leggi che hanno introdotto gli uni e l’altro, né su consistenti unità di polizia giudiziaria.
Il contesto sociale nel quale vive è ostile e omertoso, certamente non di collaborazione con le istituzioni giudiziarie, e le norme del processo penale entrate in vigore nel 1989 complicano l’accertamento dei crimini.
Eppure onora la toga che indossa in modo così esemplare da sacrificare per essa la vita. Esalta a tal punto le virtù umane e cristiane da essere il primo magistrato in epoca moderna a essere beatificato.
Qual è il suo unicum? Che cosa Livatino ha da insegnare a chi oggi fa il giudice in un qualsiasi ufficio giudiziario, e in particolare in quelli maggiormente esposti alla repressione della criminalità? Ogni Santo ha qualcosa di esemplare, anche sul piano civile e secolare: in che cosa è di esempio il primo magistrato dell’epoca moderna portato sugli altari?
La risposta è agevole sul piano teorico, complicata sul piano del comportamento, se realmente un giudice voglia tranne spunto nella propria esistenza da quella di Rosario. Questi è un modello per ogni magistrato perché, pur non lavorando in un ufficio giudiziario di rilievo istituzionale, e ancor meno mediatico, incarna in sé in modo eccelso le doti che ci si attende da chiunque indossi una toga e pronunci decisioni “in nome del Popolo italiano”.
E poiché la nostra capacità di comprendere ha dei limiti obiettivi, e ogni luce si coglie per contrasto, si provi a porre la sua esperienza giudiziaria a confronto col profilo di magistrato che emerge dagli scandali che hanno interessato negli ultimi anni la magistratura italiana, e in generale con la percezione che il non addetto ai lavori può aver avuto dal contatto con esponenti della giurisdizione.
Questo esercizio non appaia dissacrante o irriguardoso. Anzi, poiché quanto descritto dall’ex presidente dell’Anm Luca Palamara nel libro non a caso intitolato “Il sistema” ha avuto come reazioni decisi richiami alla deontologia, proprio quel confronto può rendere superfluo precisare e ulteriormente ribadire i doveri della disciplina della funzione: basta e avanza la vita, umana e professionale, di Rosario Livatino, che incarna l’etica della giurisdizione in ogni suo aspetto.
Partendo dal porre la propria coscienza professionale non già sotto la tutela di una ’corrente’ della magistratura associata, e ancora meno sotto la tutela di una ideologia da compiacere, bensì S.T.D., sub tutela Dei: le tre lettere che si ritrovano sulle pagine più impegnative del suo diario. Per il giudice credente è una garanzia. Il giudice non credente potrebbe fare la prova.