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Il ruolo della filosofia nell’emergenza pandemica e post-pandemica

Da Socrate a Byung-Chul Han, la filosofia è sempre stata intrecciata alla politica come voce critica e luogo privilegiato per la custodia della legalità e del bene collettivo della “polis”. Eppure i filosofi sembrano oggi esclusi dal dibattito pubblico, destinati a chiudersi nell’ambito accademico. Le loro critiche o denunce vengono ignorate o banalizzate. Ma la pandemia non è solamente una questione sanitaria e il contributo che può offrire la filosofia è essenziale per affrontare i nuovi tempi che siamo chiamati a vivere.

Se la pandemia da Covid-19 si è inizialmente presentata come un’emergenza prettamente sanitaria, col passare dei mesi la politica si è vista obbligata chiamare in causa altre scienze capaci di contribuire alla lotta contro il virus. La politica ha dunque arruolato esperti dei vari settori quali medici, economisti, psicologi, educatori, sociologi, al fine di affrontare la crisi sanitaria usufruendo del loro contributo.

Se osserviamo con attenzione noteremo l’assenza della filosofia tra le scienze che partecipano attivamente al dibattito pubblico. Eppure la filosofia nasce e si sviluppa come una scienza strettamente legata politica. Basterà guardare alla storia del pensiero occidentale per capire quanto la filosofia sia stata da sempre intrecciata con la politica e quanto essa abbia contribuito nel consigliare gli uomini politici e nell’elaborazione di sistemi di governo giusti, adatti alla gestione della cosa pubblica, offrendosi come luogo privilegiato per la custodia della legalità e del bene collettivo della “polis” (da cui il termine “politica”). Ciò è successo da sempre nella gestione ordinaria del potere ed in maniera particolare durante i momenti di emergenza, di crisi o di svolte epocali come guerre, carestie, pestilenze, avversità naturali o economiche, campagne militari o nei momenti in cui l’autoritarismo o il totalitarismo hanno messo da parte la giustizia e le libertà fondamentali per perseguire gli interessi dello stato. Più volte nella storia la voce del filosofo – libero da legami politici, economici, affettivi – ha denunciato gli errori, gli eccessi e le ingiustizie insiti nei sistemi di governo. Lungo la storia, molti filosofi hanno pagato con la vita per le loro posizioni diventando dei martiri del pensiero filosofico (si pensi a Socrate a Tommaso Moro o a Jan Patocka).

Socrate fu il primo a indicare il primato dell’etica sulla politica, la virtù come l’unica strada per la felicità e dunque come qualità indispensabile per governare la città. Platone assegnò ai filosofi il ruolo di educatori ma anche di guide dello stato ideale. Anche Aristotele formulò una catalogazione delle diverse forme di governo a partire dal nucleo base della società: la famiglia. Nel periodo classico e medievale molti governanti si circondarono di filosofi come consiglieri. Così fece Carlo Magno che creò la Schola Palatina; così Severino Boezio e Cassiodoro che furono consiglieri di Teodorico il Grande. Nel XIV secolo il filosofo Marsilio da Padova pubblicava il Defensor Pacis, opera destinata ad influire notevolmente sul pensiero politico. Nel Rinascimento umanisti come Erasmo da Rotterdam, Niccolò Machiavelli, Tommaso Moro, Bruno Campanella si occuparono di politica lavorando nelle corti come consiglieri o teorizzando sistemi politici ideali (“Il Principe”, “Utopia”, “Città del sole”) o denunciando i mali della politica contemporanea. Hobbes, Locke, Rousseau, Montesquieu, Kant, Hegel, Heidegger sono solo alcuni dei filosofi moderni che hanno contribuito all’approfondimento del pensiero politico, mentre autori come Max Weber, Carl Schmitt e Karl Popper misero le basi della moderna filosofia politica.

Persino i regimi politici totalitari che insanguinarono il XX secolo si servirono di concezioni filosofiche elaborate per giustificare l’ideologia di partito (così il marxismo). Altri filosofi, al contrario, elevarono critiche e denunce, basti pensare al pensiero dissidente di autori come Dietrich Bonhoeffer, Hannah Arent, Simone Weil, Solzenicyn, o Jan Patocka. Nell’immediato dopoguerra i filosofi della Scuola di Francoforte contribuirono ad una riflessione critica sul potere dopo l’esperienza dei totalitarismi. Di politica si occuparono gli esistenzialisti francesi come Sartre e Camus, il quale utilizzò la metafora della peste come simbolo della condizione umana e del rapporto tra fede e scienza.

L’attuale riflessione filosofica sul periodo di crisi sanitaria e sulle strategie politiche messe in atto per affrontarla, trova spesso un riferimento nella filosofia di Michel Foucauld (1926-1984). L’esercizio del potere fu infatti al centro della riflessione del filosofo francese per il quale nella società capitalista il potere politico si è trasformato in bio-potere (biopolitica) esercitato sul corpo degli individui. Un passo avanti nella riflessione sul potere è stato fatto dal filosofo contemporaneo sud-coreano Byung-Chul Han che parla oggi di una psicopolitica fondata sul tracciamento digitale al quale la popolazione iperconnesa si sottopone volontariamente a cambio di benessere e del soddisfacimento dei propri bisogni immediati. In questo senso il filosofo italiano Giorgio Agamben ha denunciato fin dall’inizio della pandemia le storture e le incongruenze della gestione politica dell’emergenza sanitaria. Dopo l’approvazione del decreto sul Pass Sanitario, ha pubblicato assieme al filosofo Massimo Cacciari due articoli che denunciano alcune criticità insite nella misura adottata che rischierebbero di creare discriminazioni e mettere a rischio la tenuta democratica. Voci critiche che non hanno però trovato una buona accoglienza nei grandi media, spesso banalizzate o ridotte a semplici “teorie del complotto”. Eppure anche in Francia alcuni eminenti filosofi hanno criticano aspramente le misure di contenimento della pandemia: lo ha fatto la filosofa Chantal Delsol, sulle colonne de Le Figaro, il giovane Martin Steffens e il noto Bernard-Henry Levy che ha denunciato le misure autoritarie e l’atmosfera di terrore generata dai media con i continui bollettini sui decessi.

A Marzo del 2020 l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici ha aperto una rubrica intitolata “Diario della Crisi” nella convinzione che la pandemia non riguardi solamente l’aspetto sanitario ma l’uomo nel suo insieme. Un’encomiabile iniziativa che offre spazio a voci differenti e meriterebbe di venir considerata nel pubblico dibattito. La cosiddetta “nuova normalità” prevede infatti dei sostanziali mutamenti del nostro stile di vita e, a un anno e mezzo di distanza dall’inizio della crisi, possiamo dire di vivere in una società diversa, di aver ormai assunto nuove abitudini. Distanziati, igienizzati, impauriti…

Per il suo ruolo di osservatrice critica delle dinamiche sociali, dell’uomo e della politica, la filosofia può e deve sostenere i cittadini e i governanti in questo delicato momento di smarrimento e – se si vuole – di transizione, offrendo gli strumenti adatti per capire ed interpretare il momento presente. In una società che elogia il pluralismo di idee e di posizioni, non dovrebbe trovare ostacolo l’esposizione di un pensiero critico, libero dalle logiche di potere, capace di guardare al di là del dato immediato, capace di porsi le domande e di cercare le risposte attraverso l’uso della ragione, capace anche di denunciare ciò che mette a rischio i valori fondamentali della politica e della società, forte della propria conoscenza della storia, dell’uomo e del mondo.

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