Qual è il destino del ddl Zan, la cui trattazione il Senato ha preferito rinviare a dopo la pausa feriale? Per rispondere al quesito va ricordato che all’interno dello schieramento favorevole al ddl si sono levate voci critiche su 3 dei 10 articoli di cui si compone: l’art. 1, con le definizioni di sesso, genere, orientamento sessuale e identità di genere; l’art. 4, la c.d. norma salva idee, che in realtà conferisce al magistrato una discrezionalità e un potere assai estesi; l’art. 7, che permette e finanzia il gender a scuola, a prescindere dal consenso dei genitori. Nell’avvio della discussione in Aula a Palazzo Madama più d’un esponente del fronte critico del ddl si è spinto ad affermare che se PD e M5s accettassero la proposta di eliminare quelle disposizioni, mantenendo le altre, non vi sarebbero ostacoli alla rapida approvazione del testo, con un altrettanto veloce ritorno alla Camera per il varo definitivo.
Si perverrebbe così a una legge simile a quella proposta all’inizio dell’attuale Legislatura dall’on. Scalfarotto, e quindi qualcosa in più rispetto a quel ‘testo Scalfarotto’ che nella precedente Legislatura era stato approvato con pochissimi voti contrari alla Camera, e poi era stato fermato al Senato. Spero sia lecito ritenere che un ddl – lo ‘Scalfarotto’ -, così a suo tempo contrastato dalle piazze di tutta Italia (si ricorderà la silenziosa protesta delle ‘Sentinelle in piedi’) rappresenti una inaccettabile sintesi delle opposte posizioni sul ddl Zan: lasciare in vita degli articoli 2, 3 e 5, come avverrebbe se l’accordo andasse in porto, renderebbe superfluo cancellare gli altri. Vediamo perché.
L’art. 2 punisce chiunque “istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi (…) fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere (…)”, e vieta, con la reclusione fino a sei anni, la partecipazione e la guida di “ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi (…) fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere (…)”. L’art. 3 mantiene l’aggravante.
L’art. 5 sancisce che chi ha commesso il reato ha la pena sospesa, o un beneficio equivalente, se svolge lavoro sostitutivo per una associazione fra quelle che promuovono i ‘diritti’ lgbt+.
Questo vuol dire che il responsabile di una associazione pro family, o più in generale un sacerdote o un catechista che ripeta l’insegnamento della Chiesa su matrimonio e figli, potrebbero essere obbligati ad affiggere manifesti per il Gay Pride, in alternativa a una condanna a pena detentiva: o fai qualcosa di radicalmente contrario al tuo pensiero o vai in carcere! Proprio sull’art. 5 e sulla libertà delle associazioni si era non a caso concentrata la Nota verbale della S. Sede allo Stato italiano.
Quanto all’ipotesi di sopprimere l’art. 7 mantenendo gli art. 2, 3 e 5: si immagini che una associazione lgbt+ chieda al direttore di una scuola di fare lezioni di gender, e che costui subordini l’assenso all’accordo coi genitori degli alunni. L’associazione lo denuncerebbe per atto discriminatorio: se il P.M. desse seguito alla denuncia quel preside quanto meno si ritroverebbe iscritto nel registro degli indagati. Basteranno un paio di simili iniziative giudiziarie e il gender entrerà trionfalmente in tutte le scuole, pur senza l’art. 7. È il caso di puntare a un simile inutile – e anzi dannoso – compromesso?
Alfredo Mantovano, vicepresidente Centro studi Rosario Livatino