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Ciò che realmente sconcerta nella “riforma della giustizia penale”

Quel che realmente sconcerta nella ‘riforma della giustizia penale’ – come è stata enfaticamente definita la legge Bonafede-Cartabia, approvata in via definitiva qualche giorno fa dal Parlamento – è, prima ancora del suo contenuto, che sia passata velocemente con voto di fiducia, senza tenere in considerazione le forti riserve tecniche avanzate dagli addetti ai lavori, e quindi senza l’approfondimento che esigono questioni, quali quelle contenute nella ‘riforma’, che attengono ai criteri di priorità per i Procuratori della Repubblica, alle deroghe alla immutabilità del giudice, all’improcedibilità in appello (e in Cassazione), alle misure alternative alla detenzione, all’introduzione dell’ufficio del processo. Il governo lo ha spiegato con la necessità di predisporre nei tempi convenuti in sede europea quanto necessario per fruire delle risorse del PNRR.

Sarebbe utile però indicare quale parte della ‘riforma’ sia funzionale alla ripresa post pandemia. I tempi della giustizia sono intollerabilmente lunghi in ogni settore, ma il rilancio dell’economia esige rapida definizione delle controversie di natura civile: il che non accade se il recupero di un credito per via giudiziaria richiede un tempo variabile da 5 a 10 anni, o se una sentenza viene depositata un anno e più dopo che il giudice aveva riservato la decisione. Nulla di ciò ha a che fare con le novità introdotte nel settore penale dall’attuale ministro della Giustizia, sulla scia dell’originaria proposta del suo predecessore.

La ‘riforma’ renderà anche formalmente discrezionale l’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero, contro quell’obbligatorietà che ancora oggi è sancita dalla Costituzione. Se finora il 70% delle prescrizioni maturano già nella fase delle indagini è perché ogni Procura, se non ogni P.M., decide che cosa mandare avanti e che cosa lasciare nel cassetto. Adesso ciò sarà possibile non contro, bensì in applicazione della legge (ma non della Costituzione).

La ‘riforma’ dilata la quantità di prove preconfezionate, per es. con la videoregistrazione delle dichiarazioni di un testimone, senza che sia sottoposto al contraddittorio del dibattimento, con la penalizzazione delle garanzie difensive, e con l’allontanamento del giudizio penale da un modello di relazioni fra persone: la strada del ‘da remoto’, infaustamente praticata durante la pandemia, conosce così ulteriori passi in avanti, e capiterà con maggiore frequenza che il giudice davanti al quale si sono raccolte le prove non sia poi quello che decide.

Il regime della prescrizione imposto dal ministro Bonafede resta integro, ma la ‘riforma’ introduce l’improcedibilità in appello e in Cassazione: se il processo non si fa entro il tempo stabilito tutto si azzera, anche per reati gravi e per giudizi complessi. Che è come, di fronte a una persona con problemi di obesità, non già aiutarla ad affrontarli con cure e diete calibrate, ma obbligarla a indossare un abito taglia 48.

Nulla in termini di incremento di organico del magistrati. Nulla quanto ad aumenti di organici del personale di cancelleria: i concorsi di cui si parla sono ordinario turn over, con numeri più consistenti solo perché il Covid ha impedito i concorsi nel 2020. C’è l’ufficio del processo, certo, che assorbirà larga parte delle risorse PNRR destinate alla giustizia: ma esso si basa sull’atto di fede e sull’atto di speranza che per due anni un po’ di neolaureati sarà in grado, affiancando senza alcuna esperienza e formazione specifica i magistrati già in servizio, a smaltire gli arretrati e rispettare i tempi delle sopravvenienze. Si faccia l’atto di carità di non prendere in giro.

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