Non è una novità che la riforma della giustizia sia oggetto del dibattito politico e all’ordine del giorno dell’attività del Parlamento. È un tema ricorrente, forse addirittura permanente, per il succedersi delle iniziative di puntuali riforme e di immediate correzioni o variazioni nell’indirizzo delle stesse riforme, che manifestano così la fragilità delle soluzioni nel tempo adottate.
Oggi tiene campo la necessità imposta, come condizione per l’utilizzazione dei fondi messi a disposizione dall’Unione europea con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), di rendere efficiente l’andamento della giustizia e ridurre drasticamente i tempi dei processi sia civili che penali. La disponibilità di nuove risorse finanziarie offre una straordinaria occasione per raggiungere questo obiettivo, che ha alla base ragioni non solamente economiche. Certo, c’è da attendersi che la sollecita definizione delle controversie richiami ed agevoli gli investimenti produttivi, e che il buon andamento del servizio che lo Stato offre con la giurisdizione e la certezza dei rapporti giuridici possa determinare un non irrilevante incremento del prodotto interno lordo, stimato in mezzo punto percentuale.
Ma ancor prima il buon andamento della giurisdizione rende effettiva la garanzia che la costituzione offre con il diritto riconosciuto a tutti di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. Come pure la costituzione stabilisce che la legge “assicura la ragionevole durata”dei processi: si direbbe un obbligo che impone di conseguire questo risultato e non solo di predisporre regole, organizzazione e mezzi che aspirino a raggiungerlo.
Uno dei rischi che si corre è ritenere che la modifica delle disposizioni che regolano lo svolgimento del processo e le scadenze dei singoli atti solitamente imposte agli avvocati, sia di per se idonea ad abbreviarne la durata. Nella realtà i “tempi morti” sono in gran parte dovuti alla impossibilità per ciascun giudice di trattare più di un determinato numero di cause avendone sin dall’inizio adeguata conoscenza, e di deciderne un numero che smaltisca in tempi ragionevoli, appunto, quelle affidate al suo giudizio. Questo vale soprattutto per il processo civile, nel quale sono le parti, di solito private, ad animare in una posizione di parità la contesa, e proporre la domanda e segnarne i confini, per ottenere una giusta definizione della lite, che dia certezza all’assetto dei loro rapporti.
Nel processo penale si esprime la pretesa punitiva riservata allo Stato, ed è forte la necessità di garantire il “giusto processo” e la difesa dell’imputato, venendo in gioco uno dei beni più rilevanti per ogni individuo: la libertà personale. Il dibattito politico sembra catturato dal tema della prescrizione del reato, che ha alla base un principio di civiltà. La prescrizione impedisce che si possano subire accuse per fatti remoti nel tempo, rendendo difficile la prova e la difesa, mentre la pena di una eventuale condanna a distanza di molto tempo dai fatti perderebbe la finalità rieducativa. Come pure non si può essere sottoposti a un processo per un tempo indefinito.
La soluzione proposta dal Governo esclude la prescrizione del reato dopo il primo grado di giudizio, ma prevede la improcedibilità se il giudizio di appello o di cassazione non rispetta i tempi che la legge fissa come ragionevoli per ciascun grado di giudizio. Con entrambi i meccanismi, della prescrizione o della improcedibilità processuale, il medesimo fatto non può essere oggetto di un nuovo giudizio e le due soluzioni tendono ad essere equivalenti, anche se è più limpido e meno complesso il sistema della prescrizione sostanziale. Anche in questo ambito il problema non è la prescrizione o la improcedibilità, ma sono tempi delle indagini che precedono l’accertamento in giudizio, i tempi morti per e nella celebrazione dei processi.
Dovrebbe, quindi, essere dominante l’attenzione per gli aspetti organizzativi, che invece sono solitamente tanto trascurati quanto decisivi: dal completamento dell’organico dei magistrati e del personale degli uffici giudiziari, che contano vistose scoperture, alla definizione delle nuove professionalità necessarie per una efficace informatizzazione e la introduzione di nuove modalità operative. Decisiva è anche la capacità organizzativa dei magistrati che svolgono funzioni direttive. I meccanismi della loro selezione ad opera del Consiglio superiore della magistratura hanno mostrato degenerazioni, che non di rado hanno privilegiato nella scelta il dosaggio dell’appartenenza a correnti associative.
È da aggiungere che il buon andamento della giustizia non si esaurisce nella efficienza del servizio e nella sollecita definizione dei processi, elementi che pure sono essenziali. La giustizia amministrata dallo Stato, e la fiducia in essa, si nutre anche della qualità delle decisioni e della loro rispondenza al senso di giustizia e di equità che ciascuno intuitivamente percepisce. Per la nostra tradizione, risalente al diritto romano, il diritto è l’arte del buono e del giusto. Perché questa arte sia effettivamente praticata occorrono buoni legislatori e giudici saggi ed equilibrati.