Si dice che nella vita ci siano solo due cose certe: la morte e le tasse. Mentre la prima è un fatto ineluttabile, le seconde sono viste, eufemisticamente parlando, come un fastidio se non come un furto legalizzato e, per questo, sono un argomento sempre presente in ogni discussione al bar come in ogni programma di governo. Non è una questione meramente terminologica, si parla di tasse, in generale, ma si intende ogni tipo di prelievo da parte dello stato o degli enti locali, che sia un’imposta, una tassa o una tariffa (che, ovviamente, non sono la stessa cosa), che vanno a finanziare le attività pubbliche e, contemporaneamente, a erodere il reddito disponibile degli individui.
Probabilmente se ci fosse una maggiore coerenza tra le somme pagate e i servizi erogati il fastidio nei pagamenti sarebbe attutito, non annullato sia chiaro, ma quando sembra di pagare metà dei propri guadagni per chissà cosa ecco che i malumori crescono in buona parte della popolazione; quando, poi, esiste un sistema fiscale (quasi) vessatorio e assolutamente folle, come in Italia, ecco che la percezione dell’ingiustizia fiscale cresce a livelli molto alti.
Ora non sarà qui che si vuole aprire un discorso filosofico sulla legittimità dell’imposizione né, ancor meno, affermare che “le tasse siano una cosa bellissima”, frase dello scomparso ex ministro Padoa Schioppa diventata proverbiale, né, ancora, arrivare alla conclusione che queste siano un male (più o meno) necessario ma, invece, è interessante valutare l’operato del governo Meloni in seno al progetto di riforma fiscale che, lentamente, si sta attuando.
Dopo l’intervento sul cuneo fiscale ecco che anche la rimodulazione dell’IRPEF a tre aliquote progressive, 23% fino a 28’000 euro, 35% tra i 28’000 e i 50’000 euro e 43% oltre, con la Legge di Bilancio per il prossimo anno diventerà strutturale.
Sicuramente qualcuno si troverà deluso a fronte della promessa elettorale, da parte di alcune forze politiche, dell’applicazione di una flat tax, un’imposta a aliquota singola, addirittura al 15% ma esiste una questione chiamata Realpolitik che, alla fine, fa infrangere molte illusioni contro il muro della realtà.
La flat tax, siamo chiari, non è certo un’assurdità ma va tarata su un’aliquota di equilibrio che, sicuramente, non poteva essere il 15% ma che, credibilmente, si sarebbe potuto fissare, oggi, a un livello quasi doppio tagliando, però, la maggior parte delle agevolazioni fiscali che finiscono per azzerare (o quasi) il prelievo sui redditi più contenuti.
Non è una mera questione ideologica o di diritto, visto che la Consulta ha dichiarato in più di un’occasione che la progressività indicata in Costituzione non si applica a un singolo tributo ma al sistema in generale, si tratta di una tenuta dell’intero impianto economico e sulla volontà di non penalizzare i redditi medio bassi che già hanno subito la stasi dei salari negli ultimi 30 anni e che un provvedimento simile avrebbe azzoppato ulteriormente dal lato della propensione al consumo e al risparmio.
Il focus di questa maggioranza, quindi, è passato dai roboanti slogan elettorali a un’azione più pragmatica e graduale, per mettere in sicurezza i conti e, con il tempo, arrivare al traguardo della riduzione sensibile del prelievo fiscale e spingere il Paese verso quel sentiero virtuoso di crescita che negli ultimi decenni è mancato.
Il primo passo dell’opera, però, non può riguardare il taglio delle aliquote tout court perché, come ogni italiano sa bene, l’impianto fiscale italiano è oltremodo elefantiaco e bizantino, fatto di numerose gabelle e scadenze frequenti o, addirittura, non fisse (come nel caso della TARI che segue le delibere relative dei consigli comunali anno per anno, ad esempio) e, quindi, qualsiasi intervento di riforma va visto inizialmente in un’ottica di razionalizzazione e semplificazione, cosa che già porterebbe a un risparmio non indifferente, sia a livello di tempo sia a livello di costi vivi per lo stato e per i privati, per via delle più agevole gestione del comparto fiscale.
Non si tratta, ovviamente, solo di scadenze ma anche di tributi stessi che, a volte, non ripagano nemmeno i costi di riscossione come, ad esempio, nel caso delle micro-imposte, cosa indicata più volte sia dagli analisti sia da alcuni esponenti politici. In quest’ottica rientra anche la riduzione delle aliquote progressive IRPEF dalle quattro originarie alle tre attuali.
In pratica viene eliminata la seconda aliquota del 25% aggregandola allo scaglione più basso del 23% producendo, così, un vantaggio fiscale di due punti percentuale per la fascia reddituale tra i 15’000 e i 28’000 euro, quindi un risparmio massimo di circa 260 euro annui per i redditi sopra il livello inferiore del vecchio segmento. Poca cosa, in effetti, però è già un inizio e, soprattutto, una semplificazione ulteriore nel calcolo del dovuto per i redditi medi che, nel tempo, potrebbe portare anche a ulteriori “sforbiciate” non intaccando in maniera sensibile il gettito complessivo.
Si dirà, a questo punto, “ma per i redditi più bassi”? L’obiezione è fondata ma la risposta non è realmente complicata. Dai calcoli dell’Agenzia delle Entrate, supportati dalle rilevazioni di tutti gli istituti di statistica, risulta che il 5% dei contribuenti italiani paghi il 42% di tutto il gettito IRPEF mentre oltre il 45% degli italiani non paghi assolutamente nulla, perché privo di reddito.
Nel 50% rimanente, poi, per il gioco delle detrazioni e delle deduzioni una larga fetta di contribuenti versa pochissimo all’Erario e, quindi, è molto difficile pensare a un reale vantaggio fiscale per questi.
La riparametrazione degli scaglioni IRPEF, quindi, rientra, come in un disegno ben più ampio volto alla razionalizzazione, in primis, dell’impianto fiscale e, in secundis, di una sua possibile riduzione, a livello di prelievo complessivo, nel futuro per rendere più attrattiva l’Italia per aziende e investimenti e puntare a un livello maggiore di competitività di sistema che è prodromica alla crescita economica di cui, alla fine, beneficeranno tutti, per l’aumento dei posti di lavoro e dei salari, uscendo da quella spirale di decrescita (assolutamente infelice, con buona pace delle illusioni di Serge Latouche e dei suoi sostenitori) che il Paese vive da almeno tre decenni.