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Riders: attenzione ai “contratti pirata”

Ha suscitato, quasi, un vespaio l’annuncio da parte della Commissione Europea di una prossima Direttiva volta a regolarizzare lo status dei “rider” che lavorano con le piattaforme di delivering come JustEat, Uber Eats, Deliveroo o Glovo.

L’obiettivo sarebbe quello di portare i “fattorini” ad essere assunti direttamente dai gestori degli ordini e non più come collaboratori esterni, in quanto, in effetti, questi operano come dei lavoratori, di fatto, subordinati senza la possibilità di decisione né delle tariffe né delle modalità di consegna.

Subito si sono alzati gli strali di alcune parti dell’opinione politicamente impegnata, da una parte i difensori del “libero mercato” che paventano la fine di quella che è stata chiamata Gig Economy per l’avvento di condizioni artificialmente non competitive per le app di consegna e dall’altra una sorta di sollievo da parte dei difensori degli sfruttati. Bene, a parere dello scrivente, nessuna delle due ha ben inquadrato il problema.

Anche la giurisprudenza sta dibattendo sulla vera natura del rapporto di lavoro, se subordinato, autonomo o, addirittura, una terza figura non ancora formalizzata, probabilmente, ibrida tra i due concetti più comuni, in quanto, finora, i riders sono stati visti come lavoratori autonomi e pagati “a cottimo” a seconda del numero delle consegne effettuate, cifre marginalmente minime ma che potrebbero essere anche consistenti in caso di lavoro full time e di “buone gambe” da parte del soggetto in questione. Su queste, poi, vanno calcolate imposte e contributi sulla base del regime fiscale attribuibile alla figura. Non è questo, sicuramente, il luogo dove poter discutere di un argomento tecnico come quello fin qui delineato ma, invece, potrebbe essere interessante una seria riflessione sul fenomeno.

In questi quasi due anni di emergenza sanitaria, quasi tutti, ci siamo abituati all’idea della consumazione da asporto, presa dai ristoranti preferiti, con consegna, spesso, effettuata tramite “fattorino” o dipendente dell’esercizio e indirizzato da un’app di consegna o da ordine diretto al locale.

Complici i prezzi piuttosto convenienti e la comodità di ordine e di pagamento le app sono diventate di uso comune e piuttosto diffuso, tanto che sempre più ristoranti stiano aderendo al servizio proposto. Siamo sicuri che il mutamento dello status giuridico dei rider possa portare a costi superiori e, nel caso, insostenibili?

Prendiamo il caso di Just Eat che ha già assunto i propri addetti alle consegne come dipendenti, questa non ha avuto grandi contraccolpi e, personalmente, la considero come la piattaforma migliore per ordinare, anche se, tecnologicamente e visivamente, è credibile che Uber Eats, ad esempio, sia estremamente superiore.

Il punto da considerare verso il pubblico acquirente, infatti, non è solo il mero prezzo ma anche la qualità del servizio percepito, tanto che, a volte, si accettino anche prezzi superiori per avere un supporto impeccabile come il caso, di scuola, degli utenti di Apple nel campo informatico insegna.

Detto questo non sarà certo una forma giuridica da attribuire ai propri collaboratori che cambierà la proposta commerciale quanto, piuttosto, le condizioni con cui questa sarà formalizzata. Ecco, il punto vero sta qui: nelle condizioni di contratto, non tanto nella tipologia di quest’ultimo.

Seppur vero che un rapporto di lavoro subordinato imponga dei costi che, generalmente, nel contratto di collaborazione con un autonomo sono, diciamo, svicolabili, è altresì vero che nel primo caso si possa calare un’organizzazione del lavoro differente e più efficace, potenzialmente con delle economie di scala significative già nel medio periodo che, unite a una maggiore sicurezza professionale da parte dei lavoratori, potrebbero tradursi in un apprezzabile aumento di produttività portando anche, in prospettiva, a rese maggiori a livello marginale.

Ovvio che la struttura dell’emolumento dovrà essere pensata per spingere in questa direzione, tra fisso mensile e premi, anche individuali, per la maggiore produttività ma questo sarà compito della contrattazione tra la parte datoriale e i rappresentanti dei lavoratori. In quest’ultimo punto, poi, si nasconde il vero rischio per i lavoratori, che spesso i “difensori degli sfruttati” non considerano, cioè i cosiddetti “contratti pirata”.

In Italia, infatti, la struttura dei CCNL, applicabili erga omnes nella categoria di applicazione, permette l’esistenza di questi tipi di contratto, laddove non esista un accordo sulla rappresentanza e, contemporaneamente, non ci sia una grande adesione alle organizzazioni sindacali, che sono siglati da organizzazioni minori, rispetto alle principali e più conosciute come CGIL, Cisl e Uil, e che solitamente prevedono delle condizioni penalizzanti verso i lavoratori; si stima che, oggi, siano in vigore circa 400 contratti di questo tipo che, se non si creasse una vera rappresentanza che permetta di avere una controparte qualificata, difficilmente potranno essere sradicati.

Diciamo che la questione della regolarizzazione dei rider, quindi, apre la porta a un mondo da rivedere e regolamentare in maniera efficiente, ricordando, però, che la struttura stessa di questo segmento economico richieda una normativa agile e snella per evitare di affondare un settore che, almeno a livello marginale, può essere una risorsa per tutti.

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