Mettete da parte per un momento le parole rimpasto, nomine, ministero e ministro, fiction, 1992, annuncite. E, soprattutto, ricacciate indietro come un rigurgito di bile l’idea di associare tutto ciò al caso Renzi-Ncd- De Giroloamo-Lupi. Di questo quadrilatero ne parliamo dopo. Piuttosto concentratevi su tre sostantivi aggettivanti: craxismo, berlusconismo e renzismo. Cos’hanno un comune queste tre ere della politica italiana? Qual è il tratto distintivo di ognuna e, in particolare, dov’è il punto di raccordo? Se le prime due epoche sono già sedimentante e parzialmente collocabili nei libri di storia, la terza sta dipanando ora i primi capitoli di un libro che si preannuncia lungo e articolato. Però è del tutto evidente che il minimo comune denominare di questi tre strati è il decisionismo. Tutti e tre, Craxi, Berlusconi e Renzi amavano, e amano, decidere. Ai primi due, però, non è andata come si erano immaginati. Troppi errori, troppo compromessi, troppe corti e cortigiani.
Renzi ha saltato subito questi tre ostacoli, avendo studiato attentamente Craxi e Berlusconi. Gli errori diventano semplici elementi di disturbo, i compromessi sono stati aboliti, corti e cortigiani non ci sono. Esistono solo meri esecutori. Perfetti yes man formattati con un programma basico ma strategicamente perfetto: si ascolta ma non si parla se non a comando, seguendo il canovaccio scritto dal capo. Dunque sempre pronti ad essere resettati. Semplice no? In parte. E in parte no. Semplice perché ogni movimento di pedina è sempre più simile al gioco dell’oca. E siccome muove solo Renzi tutto il resto è noia. Sia Craxi che Berlusconi, ogniqualvolta dovevano piazzare questo o quello, erano costretti a riunire il consiglio di guerra prima che scoppiasse il conflitto. Cedevano qualcosa qua e là e con poche mosse ottenevano l’armistizio. Renzi no. L’attuale capo del governo usa la tattica del prendere o lasciare. Solo che questo meccanismo ha in sè un ingranaggio imperfetto. Prima o poi c’è il rischio che fra gli yes man s’infiltri una variabile impazzita, proveniente magari da un partito alleato. Solo se lo controlli totalmente puoi ridurre il margine di rischio.
Ecco perché l’inquilino di Palazzo Chigi vuole annettere, ma sarebbe meglio dire annientare, il Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano. Ragione per la quale la partita che ha portato in panchina Lupi e dato scacco alla regina De Girolamo, non è un gioco fra due esperti strateghi, ma solo un esercizio di stile del maestro dell’arrocco. Alfano osserva da spettatore, avendo messo sul tavolo il suo partito personale. Per tornare al confronto fra i tre tenori delle rispettive ere della politica italiana, sia a Craxi che a Berlusconi piaceva piacere, essere amati. Da tutti possibilmente. A Renzi no.
A Matteo non interessa il piacere, ma il godere, nel senso del potere. La sua massima ambizione è avere il controllo totale, che significa tenere in pugno il Paese. O, quantomeno, il timone della nave Italia. Solo i sondaggi sono il suo pane quotidiano. Renzi controlla tutti coloro che gli stanno attorno. Per questa ragione il renzismo salta a piè pari le due ere politiche sopra citate. Il suo prodotto è diverso da tutti gli altri. Dato il contesto, è del tutto evidente che rimpasti di governo, nomine fatte fuori dal cerchio magico sono solo alibi, armi di distrazioni di massa, variabili volutamente introdotte in una macchina da guerra che gira a pieno regime. E che solo un economia in crisi, quale è quella che sta ancora tenendo a terra l’impresa Italia, rischia di far saltare. Ma per il momento ci sono solo dei sondaggi a dire che gli italiani iniziano ad essere scontenti di Renzi. Solo timidamente però….