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Referendum eutanasia: non si può mettere la vita ai voti

Il prossimo 15 febbraio la Corte Costituzionale si pronuncerà sull’ammissibilità di otto referendum, sei relativi al tema della giustizia e due all’eutanasia attiva e alla cannabis legale. Nello specifico, relativamente all’eutanasia, punta all’abrogazione parziale dell’art. 579 del c.p. che oggi sanziona come reato “l’omicidio del consenziente”, ovvero l’uccisione di chi ne fa richiesta e ciò in linea con quanto dichiarato da Marco Cappato nel corso di un programma televisivo: “ammazzare chi è d’accordo ad essere ammazzato”.

Nel 2007 così scriveva Mario Melazzini medico-scienziato affetto da SLA (sclerosi laterale amiotrofica): “Nonostante sia costretto sulla sedia a rotelle, possa solo muovere due dita della mano destra, sia alimentato artificialmente tramite PEG (gastrostomia endoscopica percutanea) durante la notte, supportato dalla ventilazione, totalmente dipendente dagli altri, apprezzo sempre di più quanto sia bello vivere con dignità e sentirmi utile prima di tutto a me stesso, ma anche agli altri”.

Questa testimonianza, certamente forte, invita a riflettere su quali possano essere le ragioni e le condizioni tali da portare a una richiesta eutanasica e che cosa quindi possa essere fatto, in concreto, da parte dello Stato, della Sanità, della comunità e dalla famiglia per ridurre al minimo queste richieste di aiuto da parte del sofferente.

Il referendum, pur se dichiara di fatto un fallimento della politica che non è stata in grado di fare una buona legge nell’interesse dei cittadini, è un istituto giuridico contemplato dalla Costituzione della Repubblica Italiana e rappresenta uno strumento attraverso il quale è garantita la partecipazione diretta dei cittadini alla vita politica del Paese.

Ma quando si trattano temi sensibili quali quelli di decidere se interrompere o meno una vita umana, crediamo che non debba essere il cittadino a dover decidere su una materia così complessa, quale quella relativa alla vita, che riguarda la biologia, la medicina, conoscenze scientifiche e considerazioni che devono esser ben comprese e valutate; in altre parole non crediamo che la “vita possa essere messa ai voti “. E’ che in realtà sembrano esser scomparsi nell’odierna società quei limiti comportamentali che in passato rendevano l’uomo capace di privilegiare l’etica a fronte di un disordine morale oggi, al contrario, divenuto norma.

Nel 1962 uscì un film di grande successo diretto da Terence Young: “Agente 007 – Licenza di uccidere”; mai avremmo potuto immaginare allora che, sessant’anni dopo, tale “licenza di uccidere” si sarebbe potuta trasferire ai giorni nostri. Perché proprio di questo si tratta, anche se la maggior parte dei cittadini, in buona fede, non si rende conto a quale deriva etica potrebbe portare l’eventuale approvazione di questa consultazione popolare.

L’eutanasia è vietata attualmente dal nostro ordinamento giuridico sia nella versione diretta, in cui è il medico a somministrare il farmaco eutanasico alla persona che ne faccia richiesta (art. 579 c.p. omicidio del consenziente), sia nella versione indiretta, in cui il soggetto agente prepara il farmaco eutanasico che viene assunto in modo autonomo dalla persona (art. 580 c.p. istigazione e aiuto al suicidio), fatte salve le discriminanti procedurali introdotte dalla Consulta con la Sentenza Cappato.

Varie sono state le tappe che nel tempo hanno portato a questa richiesta referendaria frutto di una cultura di morte che TV, Organi di stampa e Talkshow hanno portato avanti negli ultimi anni in maniera ossessiva e nelle sedi più disparate, lasciando poco spazio alle tesi contrarie inneggianti alla cultura della vita.

Si era partiti infatti, nei decenni passati, nel sostenere “l’Eutanasia da omissione” solo per i pazienti tenuti in vita nei reparti di rianimazione attraverso la ventilazione meccanica, per estendere poi tale richiesta anche a coloro nutriti artificialmente, per arrivare infine addirittura alla rivendicazione di interrompere l’idratazione considerata come farmaco di “sostegno vitale”. La legge (219 del 2017) sulle DAT e la sentenza (242 del 2019) con la quale la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di parte dell’art. 580 c.p., fanno presagire, purtroppo, l’ammissibilità di tale quesito referendario.

La preoccupazione, che poi diviene certezza, è che una volta che si vada alla consultazione referendaria, questa possa essere interpretata quasi come una “conquista di civiltà” non preoccupandosi, i cittadini, di comprendere il pericolo che questa eventuale abrogazione potrebbe comportare.

E’ cosa certa, infatti, che la richiesta eutanasica non si limiterà solo a quei casi selezionatissimi di sofferenza “insopportabile”, ma che si estenderà nel tempo ai più vulnerabili: disabili, anziani non autosufficienti, emarginati, malati terminali, disperati. In un domani infatti, dove gli investimenti assistenziali non fossero più sufficienti a garantire un’adeguata assistenza sanitaria perché non reperire le risorse magari eliminando le categorie più fragili?

Il punto di domanda quindi è se sia eticamente accettabile che uno Stato si preoccupi più di trovare strumenti e risorse per assicurare una “buona morte” piuttosto che, al contrario, assicurare una vita dignitosa anche nella malattia a chi vuol vivere. Basti pensare solamente ai malati non autosufficienti che quei genitori anziani, spesso con pensioni minime e senza aiuti, non riescono più, neanche fisicamente ad accudire in casa.

Risulta certamente molto più facile ed economicamente più conveniente per lo Stato, affrontare il problema del fine vita “staccando la spina” piuttosto che prendersi cura facendosi carico della persona al crepuscolo della propria esistenza, assicurando alla famiglia tutta quella assistenza medico infermieristica che il sofferente richiede.

Qualora questo referendum fosse approvato si potrebbe arrivare al paradosso che chi non più in grado di decidere sul proprio stato di salute, perché affetto da malattia invalidante, attraverso una “decisione” familiare e per mezzo di un medico “tutelato dalla legge” potrà essere autorizzato a porre fine alla propria vita attraverso una richiesta eutanasica. L’unica categoria qualificata che dovrebbe intervenire sull’argomento e con cognizione di causa, quella medica, perché la tutela della salute fa parte della propria mission, compare marginalmente nel dibattito e raramente viene interpellata.

Si è dibattuto, spesso e a sproposito su termini quali autodeterminazione, accanimento o abbandono terapeutico, ma chi se non il medico, che conosce il paziente, la sua storia clinica, il suo vissuto, le sue fragilità oltre che fisiche anche psicologiche, può essere in grado di aiutare e capire il perché di un eventuale rifiuto della terapia o ancor più di una richiesta eutanasica?

Il grande vulnus antropologico, filosofico, bioetico e purtroppo “ideologico” è rappresentato dall’ambiguo concetto che si ha a proposito dell’autodeterminazione secondo cui se da un lato, di fronte ad una richiesta di morte ha valore la volontà del paziente o del tutore, dall’altro al contrario, di fronte ad una richiesta di voler continuare a vivere lo Stato non fornisce tutto quel supporto assistenziale ed economico di cui il malato ha bisogno.

Chi si preoccupa minimamente del “perché” e di quali possano essere le ragioni per le quali un sofferente può giungere ad una richiesta di tal genere? Forse perché ha dolore o difficoltà respiratoria o magari è trascurato dal suo medico curante? Ha accesso alla terapia palliativa?  E’ assistito convenientemente dall’Adi (assistenza domiciliare integrata) nella sedazione del dolore, nella ventilazione con ossigenoterapia e bronco-aspirazioni corrette e periodiche? E’ curata la sua igiene personale?

Lo Stato attraverso il SSN (sistema sanitario nazionale) è in grado di assicurare l’assistenza necessaria ad un malato affetto da patologia invalidante o è costretta ad occuparsene quasi esclusivamente la famiglia là dove le condizioni economiche lo permettono?

E qual è la linea di confine tra accanimento ed abbandono terapeutico? Chi lo stabilisce? Il sofferente che spesso si sente abbandonato e che nella maggior parte dei casi è depresso, angosciato ed obnubilato nel percepire il mondo esterno? Il familiare o il tutore? O, piuttosto, la decisione relativa al piano terapeutico deve essere valutata, come nei millenni di Ars Ippocratica, dal medico in un rapporto di collaborazione con il paziente? E ancora, l’idratazione, che accompagna il malato ad una morte dignitosa, deve essere considerata come misura ordinaria di assistenza o al contrario come terapia di sostegno vitale che va sospesa?

A rispondere a tali quesiti, “mettendo la vita ai voti”, non sarà certamente il referendum quanto piuttosto il ristabilire quell’alleanza terapeutica nel rapporto medico-paziente che, sola, potrà accompagnare il sofferente a morire con dignità. Dovere del medico pertanto sarà quello non di essere datore di morte ma, al contrario, di assistere il morente nelle sue necessità, assicurandogli un sereno distacco dalla vita terrena attraverso un’adeguata idratazione, una corretta terapia del dolore, un’idonea ventilazione e da ultimo ma non ultima, un’accurata igiene della persona, assicurando in tal modo al sofferente il sollievo, la dignità ed il rispetto del proprio corpo.

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