Circa due mesi fa, esattamente il 21 luglio, è stato raggiunto in sede europea l’accordo definitivo per il cosiddetto Recovery Fund per fronteggiare l’emergenza economica creata dalla pandemia di Covid-19. In questo periodo si è parlato ampiamente della cosa, dalla quota del fondo spettante all’Italia (circa 209mld di euro divisi in 81mld in sussidi a fondo perduto e 127 e rotti in finanziamenti agevolati) agli scostamenti di bilancio che, poi, sarebbero stati coperti con parte di questa somma ma un punto, forse, non è stato analizzato fino agli ultimi giorni: le modalità di accesso al fondo.
Per poter accedere al fondo, infatti, gli stati dovranno presentare un piano nazionale di riforme da attuarsi entro il 2023 che, previa valutazione da parte della Commissione Europea, darà il via libera all’erogazione del finanziamento. Già a fine giugno, l’esecutivo italiano aveva approntato una prima bozza di “Recovery Plan” (gli anglicismi piacciono sempre di più, in effetti) indicando nove punti tematici e 137 progetti che riguardano vari punti di ammodernamento infrastrutturale e atti al rilancio del sistema economico del Paese.
Si parte dall’alta velocita, quel TAV contestato in Val di Susa ma che si vorrebbe prolungare al sud oltre Salerno, per arrivare alla digitalizzazione del paese, più volte ventilata e promessa ma ancora piuttosto arretrata sia nell’ampliamento della rete a fibra ottica e l’evoluzione della Pubblica Amministrazione che, nonostante tutto, ha ancora portali e sistemi obsoleti e poco efficienti, e giungere ai nodi della necessaria riforma degli ammortizzatori sociali e del fisco.
A questo piano nei mesi estivi si è aggiunta, almeno come desiderata, una mole importante di altri progetti sui tavoli ministeriali, si dice che oscillino tra i 500 e i 600, che, credibilmente, non sono frutto di poche settimane di lavoro, nonostante l’ingegno unanimemente riconosciuto al mondo delle menti italiche, ma il risultato di anni di sviluppo delle idee per riformare il Paese che si è arenato, nel tempo, tra lungaggini burocratiche e cronica mancanza di fondi a copertura. L’opportunità data dal Recovery Fund, quindi, è estremamente ghiotta poiché potrebbe permettere di “portarne a terra” alcuni, almeno, ma il condizionale resta d’obbligo.
Perché dico questo? Perché in questi mesi, anche da prima dell’inizio dell’emergenza sanitaria, si è assistito a pochi dibattiti e pochissime, per non dire quasi nulle, proposte sulla crescita sostenibile o sull’ammodernamento di infrastrutture e urbanistica o, ancora, sul futuro di un settore chiave come quello relativo a ricerca e formazione. In effetti, a parte il Reddito di Cittadinanza, Quota 100, i deliri sulla cancellazione (mai avvenuta, per fortuna) del TAV o del TAP e il continuo annuncio della revoca delle concessioni autostradali ai Benetton, dopo la tragedia del Ponte Morandi, cosa resta dei due Governi Conte? Diciamolo, tante chiacchiere, l’aumento della spesa corrente, la creazione di bonus per qualche cosa e basta.
La crisi innescata da un virus a livello mondiale e l’occasione che si presenta con il Recovery Fund e con il MES (anche se i pentastellati non ne vogliono nemmeno sentire parlare, come anche Lega e FdI all’opposizione) può rappresentare la spinta per avviare quegli investimenti che il Paese aspetta da fin troppo tempo e, attenzione, non si parla solo di investimenti infrastrutturali, come già indicato, che, comunque, avrebbero un sicuro ritorno nel medio breve termine ma anche e soprattutto quelli nei comparti che possano dare un impulso importante alla sostenibilità della crescita nel futuro e di cui, finalmente, si comincia a parlare in maniera diffusa come fisco, ammortizzatori sociali e istruzione.
Benché buona parte dei fondi ex Recovery Fund siano a fondo perduto (quindi con una socializzazione del debito che andrà a pesare sulle istituzioni europee) la maggior parte della quota rappresenta un prestito se pur a tasso agevolato che andrà restituito nei termini previsti. Una parte, sicuramente, andrà a rifinanziare gli scostamenti di bilancio già deliberati nel corso del 2020 e il debito pregresso, andandone a diminuire la servitù e, quindi, pesando meno sui futuri bilanci statali, ma il restante è una scommessa sulla crescita poiché andrà ad ampliare lo stock di debito esistente che dovrà, per forza, diminuire almeno a livello relativo sul PIL nazionale per garantirne la sostenibilità e non ipotecare il futuro dei giovani di oggi e di quelli che verranno.
La strada da percorrere è quella tracciata dal piano del governo, il punto, oggi, da non sottovalutare sarà relativo al percorso che si vorrà intraprendere. Fosse quello relativo al ciclo elettorale, cioè quella particolare declinazione del ciclo economico generato da decisioni di politica economica che si pongono in atto in concomitanza di scadenze elettorali (che in Italia vuol dire continuamente), allora assisteremo alle solite elargizioni di bonus e a provvedimenti assistenziali a cui siamo abituati, se, invece, il senso di responsabilità prevalesse allora dalla crisi potrebbe arrivare la svolta del Paese che, finalmente, vedrebbe delle azioni concrete nel suo ammodernamento e verso una nuova competitività su ogni livello, capace di attrarre talenti e investimenti e tornando ad essere quella fucina di innovazione e di qualità di cui ancora il made in Italy è sinonimo in molti settori economici e culturali.
Alla fine, infatti, i settori in cui occorra intervenire sono conosciuti da tutti, sono decenni che si parla di ammodernamento delle vie di comunicazione, di treni veloci, di reti informatiche, di digitalizzazione e sburocratizzazione della Pubblica Amministrazione, di riforma degli ammortizzatori sociali, partendo dalla Cassa Integrazione, e di stabilizzazione della previdenza, di razionalizzazione del fisco e di taglio del prelievo per spingere risparmio e investimenti, di piani energetici e di scuola e ricerca, ma a parte qualche provvedimento di bandiera nessuno ha mai fatto. Si potrebbe dire “adesso o mai più”, nel senso che un’occasione come quella che ha aperto la pandemia di quest’anno difficilmente si ripresenterà e i “treni epocali” non è detto nemmeno che passino almeno una volta della vita, contrariamente ai “cigni neri” che, invece, abbiamo già incontrato più volte. Sarebbe bello, quindi, esprimere un cauto ottimismo in questi tempi di aspettative oscure ma il realismo ci spinge a una sorta di scetticismo di fronte alla domanda cruciale “i mezzi, oggi, ci sarebbero ma chi ci governa sarà in grado di utilizzarli’”.