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Questioni di Realpolitik

Spes contra spem, c’è chi continua a puntare sulla trattativa. Obiettivo alto e nobile, purtroppo un po’ lontano. Lontano perché nessuno dei due protagonisti di questa guerra sempre più stanca e sempre più violenta che insanguina l’Ucraina pare voler cedere alla pace, e sì che ne avrebbero entrambi l’occasione e la necessità. La Russia ha fallito il primo colpo, quello a sorpresa, e da allora ha saputo solo mandare ondate di coscritti su un fronte sempre più letale. È la sua strategia dai tempi dello Zar e dalla battaglia dei Laghi Masuri. Ha sempre fallito, ma un uomo costa comunque meno di un panzer e vale sicuramente meno di un drone. L’Ucraina, cui va la giusta e doverosa solidarietà internazionale, e anche l’aiuto, non recede dai dieci punti del suo piano di pace, che sono riassumibili in uno solo: ci fermiamo solo dopo aver ripreso anche la Crimea.
C’è altro da aggiungere? Se l’inverno ha visto una falsa offensiva russa, la primavera stenta a vedere la controffensiva: arriverà di sicuro, forse è addirittura già iniziata con i 20 chilometri quadrati recuperati a Bakhmut, ma che sia il colpo finale è tutto da vedere.
La stanchezza è il fattore su cui tutti puntano: la Wagner fa capire di essere, più che stanca, stufa; qualche opinione dissenziente inizia a serpeggiare persino in Ucraina, dove si spargono voci (non controllate né verificabili) persino di arruolamenti forzati. Ma la stanchezza cui bisogna prestare attenzione non è quella dei diretti contendenti. È quella americana.

Biden finora ha gestito bene l’emergenza: poteva sfociare per un nonnulla in un conflitto atomico generalizzato, lui invece ha dosato parole e pallottole, non facendo mancare le une e le altre ma evitando di commettere l’errore dei britannici, che inviano armi come fossero giocattoli a Natale. Tra le due capitali principali del mondo anglosassone pare il vento soffi gelido, a proposito. Un punto in più per far notare come la Brexit abbia fatto del Regno Unito un’isola anche nel senso politico dell’espressione: in pochi la guardano, quindi tocca cercarsi nuovi amici, a tutti i costi. Kiev val bene, in quest’ottica, un missile. Ma questa è la politica estera del disperato. Il Presidente americano, poi, vede già la fine del primo mandato: vuole essere rieletto e per farlo sarebbe un ottimo biglietto da visita la pace in Ucraina, la sconfitta non letale di Putin, il rilancio del primato americano nel mondo e un tempo congruo per gestire, prima che arrivi il novembre 2024, i fondi della ricostruzione. Non aggiungiamo altro, il quadro è abbastanza chiaro.

Nel suo giro in Europa, Zelensky si dev’essere accorto che non tutto gira come vorrebbe. In Vaticano lui e il Papa hanno concordato che non vi sono comuni punti di vista, se non per il recupero dei bambini rapiti dai russi. In Germania si è sentito dire da Scholz che il sostegno è garantito finché sarà necessario, e la seconda parte della promessa lascia intendere che non si andrà un passo oltre lo stretto indispensabile. Macron non l’ha detto ma resta dell’avviso che Putin non vada umiliato, altrimenti addio mediazione francese, se mai c’è stata. Mattarella ha ribadito il pieno appoggio all’ingresso dell’Ucraina nell’Unione Europea. Non siamo nella testa del Presidente, ma ne abbiamo visto in passato le raffinatezze, e allora ci ha colto un pensiero. Questo: a ben vedere il processo di costruzione europea, che è il grande obiettivo del suo secondo settennato, si basa nella storia su una serie di rinunce territoriali. La rinuncia alla riva sinistra del Reno è stata la premessa per la nascita dell’asse franco-tedesco. L’accettazione della linea dell’Oder-Neisse ha aperto la fase dell’euro e dell’allargamento alla Polonia e ai paesi ex sovietici.

Slovenia e Croazia hanno chiuso definitivamente ogni genere di potenziale contenzioso immobiliare con l’Italia, che a sua volta da tempo aveva detto sì agli accordi di Osimo. L’Austria e l’Italia hanno chiuso la questione altoatesina. Senza definizione certa, vera ed accettata dei confini nell’Unione non si entra, questo deve essere chiaro. Ecco allora che la questione della Crimea dovrà essere risolta una volta per tutte, e non ricorrendo al solo diritto della riconquista. Né l’Ue, né la Nato potrebbero permettersi di accogliere un paese i cui confini orientali costituiscono una vera e propria bomba ad orologeria, che potrebbe deflagrare portando l’una e l’altra in un conflitto diretto e nucleare con la Russia.

No, anche Zelensky probabilmente un giorno dovrà rinunciare a qualcosa. O almeno aprire a trattative serie e concrete. I dieci punti del piano ucraino sono una legittima rivendicazione, ma qualche volta il sogno della pace lo si realizza con la Realpolitik, che non necessariamente discende dalla amoralità. Spes contrra spem.

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