Tutti dicono che il perdono è una cosa bellissima, finché non tocca a loro perdonare qualcosa, diceva C. S. Lewis, scrittore, saggista e teologo britannico. “E’ roba da catechismo”, si potrebbe pensare quando si parla di perdono. Eppure le scienze umane già da qualche anno hanno compreso l’importanza del perdono, per l’enorme portata che ha sul benessere fisico e psichico della persona. Perdonare fa vivere meglio con se stessi e con gli altri, lo dice la scienza. Non è facile, però, definire cosa voglia dire perdonare e ancor meno come si arrivi a perdonare.
Ho pensato, allora, di procedere attraverso i dubbi e le criticità che normalmente emergono, e di costruire gradualmente la risposta, a partire da ciò che perdono “non è”. I quattro miti. “Vorrei veramente riuscire a perdonare Marta di cui mi fidavo ciecamente, ma non riesco proprio a dimenticare il male che mi ha fatto”. “Come posso perdonare mia moglie se ho davanti tutti i giorni quello che ha combinato? Impossibile!”. Primo mito: il perdono è un oblio. Lo si può facilmente sfatare: qualora ci si dimenticasse dell’accaduto, non sarebbe più necessario ricorrere alla categoria del perdono, perché la memoria, o meglio la perdita di memoria farebbe la sua parte al posto nostro. Gli studi sulla memoria autobiografica, inoltre, ci dicono esattamente il contrario: quanto più ci si sforza di cancellare un ricordo, quanto più questo ci assale in momenti imprevedibili, come un tarlo insidioso. A chi non è capitato di andare in chiesa con la speranza (illusoria) di non voler pensare a quella persona che ci ha fatto del male? Ed ecco che mentre siamo concentrati, nel silenzio, nel raccoglimento, ci appare il volto del “nemico”, prepotentemente, e senza alcuna nostra volontà. Perderemmo del tempo e rimarremmo frustrati tentando di allontanarlo dalla nostra mente, entrerebbe anche a porta sbarrata. Il perdono, allora, convive col ricordo, sebbene questo assuma, col tempo, un peso diverso. “Vorrei perdonare, però non lo trovo giusto, sarebbe come cancellare la colpa e passare per fessi, come se nulla fosse! Non ci sto, è bene far capire che non sono stupido e non mi faccio mettere i piedi in testa da nessuno, la vedetta almeno pareggia i conti”.
Secondo mito: il perdono è debolezza e rinuncia di giustizia. Su questa comprensione errata ci sarebbe molto da dire. La punizione del colpevole, laddove possibile, deve fare il suo corso, non c’è dubbio. Ma risolve? Certo lenisce il dolore, senz’altro. Però purtroppo non basta. Seguo come terapeuta persone gravemente lese sul piano degli affetti, anche con lutti drammatici, eppure, nonostante la giustizia ricevuta, ritengono di non stare meglio. Non solo perché la persona persa, così come la fiducia in sé e nella vita, non tornano, ma anche perché la rabbia continua a stare lì. Fermiamoci un momento sulla rabbia. Che faccia bene vendicarsi così si scarica un po’ di aggressività in circolo è un’idea tanto comune quanto distorta. Covare rabbia, sebbene dia un senso apparente di vitalità e di forza, a lungo andare logora e alimenta in noi un crescendo di violenza e di malessere che ingabbia, bloccando ogni nostra risorsa o iniziativa. Dopo il sollievo temporaneo della rivalsa, poi subentra il vuoto, la disperazione di un irrisolto. E poi, a essere onesti, ma “quanta” ce ne vorrebbe per ripagare il dolore subito? Piuttosto, bisogna riconoscere che perdonare è una strada faticosa, talmente scarnificante e impegnativa da rappresentare una delle massime espressioni dell’amore, ecco perché è un processo da adulti. Bambini e adolescenti mettono in moto altro. “Quello che è successo è troppo grave, Marco è davvero imperdonabile”.
Terzo mito: il perdono come scelta solo per situazioni “possibili”, mentre alcune sono moralmente fuori portata. Vorremmo, sì, una lista di eccezioni, “tranne che…”, ma non è così. La grande potenza del perdono sta proprio nel suo essere sconfinato, senza clausole, limiti di età, differenze di culture, anche se alcune condizioni possano senz’altro facilitarlo o rallentarlo. “Vorrei perdonare e sono pronto a farlo, ma l’altro deve chiedermi scusa, visto che la colpa è sua, a detta di tutti. Perciò aspetto che si penta e si decida a fare il primo passo”.
Quarto mito, ma non per ordine di importanza, che tocca l’essenza stessa del perdono: il perdono è un processo a due, un processo relazionale, l’offensore deve rendersi conto, e allora si può avviare. Ci piacerebbe avere almeno questo alibi, invece non regge. Addirittura neppure la riconciliazione, per cui si rinnova l’amicizia, si riprende a parlare, si torna insieme “come prima”, è una condizione legata al perdono. È vero, invece, l’opposto: per riconciliarsi senza dubbio occorre aver perdonato. Ma il perdono può sussistere senza riconciliazione, che talvolta non è possibile, né opportuna. Suona davvero eccessivo! Troppo duro da accettare, eppure il perdono è un processo interiore, che parte da se stessi, sebbene “affinché il perdono sviluppi la sua potenza rigeneratrice si richiede anche l’interiorizzazione del perdono da parte del colpevole” (lo vedremo meglio tra poco). È l’aspetto più “scandaloso” e dirompente, ma anche il più affascinante. Il perdono è un cammino che la persona ferita decide di compiere, indipendentemente dalla controparte, le cui scuse, semmai arrivassero, possono facilitarlo, ma non determinarlo. Proviamo a comprenderne la ragione. Se l’altro, infatti, non ha coscienza del male che ha inflitto, l’attesa della sua consapevolezza ci lascia in ginocchio. Così non solo si sta male una volta per causa sua, ma si continua a star male perché lui/lei non è arrivato a comprendere a sufficienza l’accaduto. Doppiamente vittime.
Mettiamo il caso, però, che questa coscienza ci sia – la moglie confessa al marito il tradimento in un momento di debolezza, e riconosce il proprio torto; un confratello riconosce di aver manipolato una situazione con grave danno per il suo caro amico – le scuse sincere e accorate potranno eliminare il dolore? Il rimorso dell’offensore e la promessa che non accadrà mai più potranno far ripartire la coppia, rasserenare la comunità? Decisamente no. Credo che ognuno di noi ne abbia fatto esperienza. La persona colpita avrà bisogno non solo di tempo per smaltire la delusione, ma anche di una motivazione fortissima che raggiunga la radice del malessere e la aiuti ad andare avanti, senza mettere semplicemente un velo sopra l’accaduto. I veli, prima o poi, si rivelano inefficaci, lasciando scoperta la ferita dolorante.