I balconi, con i loro canti e balli, ci avevano illuso. Con le serenate alla luna, poi, avevamo addirittura sperato. Anzi, sognato. Ma non la conquista di Marte, molto più banalmente la scoperta di un Paese normale, unito, saldo dalle Alpi alla Sicilia. Capace di affrontare, unitariamente, l’emergenza sanitaria e la conseguenziale crisi economica. La quale rischia di essere un dramma profondo, lacerante, tanto quanto la tragedia nazionale da Coronavirus. Ci eravamo illusi. E’ bastato poco, pochissimo, per tornare ad essere la solita Italietta, divisa per bande, contrapposta per campanili, frazionata in mille formazioni politiche in rissa fra loro per il solo fatto di esistere.
Nemmeno il dramma del Coronavirus ci ha reso migliori. Passata la fiammata iniziale siamo tornati al punto di partenza. Il Nord contro il Sud, il governo centrale contro le regioni del lombardo veneto, le amministrazioni di centrosinistra contro quelle di centrodestra, a sua volta in contrapposizione con quelle venate di grillismo. Il solito caos, nonostante lo si stia giocando sulla pelle della gente, su quei numeri quotidiani fatti di persone, non di entità astratte. E questo fa male, tanto quanto il numero dei decessi. La contrapposizione, giocata a colpi di ordinanze e decreti, fra Regione Lombardia e governo centrale, quello guidato da Giuseppe Conte, non è solo il paradigma di tutto questo, ma l’epifenomeno di un braccio di ferro politico il cui vero portato sta da un’altra parte. Non certo dentro alla gestione della Sanità.
In ballo c’è il primato del ragionamento seguito, del metodo adottato, del sistema assurto a dogma. Quello della Lombardia, dicono i lombardi, è all’avanguardia, non è vero ribattono gli altri. Fermiamoci un momento. Nel marasma dei numeri, dei bollettini di guerra, una sentenza della Consulta si è persa nei meandri delle mille cose fatte ma non rese evidenti. “La determinazione dei livelli essenziali di assistenza socio-sanitaria (LEA) è un obbligo del legislatore statale ma la sua proiezione in termini di fabbisogno regionale coinvolge necessariamente le Regioni. Perciò la fisiologica dialettica tra questi soggetti dev’essere improntata alla leale collaborazione per assicurare il miglior servizio alla collettività”. È quanto ha affermato la Corte costituzionale con la sentenza n. 62 depositata il 10 aprile scorso, dichiarando illegittime due disposizioni della legge della Regione siciliana, che prevedevano un’utilizzazione diversa dei fondi rispetto allo scopo di finanziare i livelli essenziali di assistenza sanitaria e ospedaliera.
A questa conclusione la Corte è giunta dopo una specifica istruttoria nei confronti dello Stato (che aveva proposto il ricorso) e della Regione. Non si tratta di una cosa di poco conto. Il dispositivo ribadisce un dato chiaro: lo stato legifera, le Regioni dispongono ma non interpretano a loro piacimento. Come spesso avviene, in un Paese in cui ci sono 20 sanità a fronte di un sistema sanitario nazionale. Qualcosa non torna. La Corte ha affermato “la primazia della tutela sanitaria rispetto agli interessi sottesi ai conflitti finanziari tra Stato e Regioni in ossequio al principio costituzionale che pone al centro la persona umana, non solo nella sua individualità, ma anche nell’organizzazione delle comunità di appartenenza che caratterizza la socialità del servizio sanitario”.
La Consulta ha anche affermato “il principio della previa programmazione del fabbisogno finanziario e dell’obbligo di monitoraggio continuo per verificare la sufficienza delle risorse e la resa delle prestazioni secondo gli standard previsti dalla legge e dal D.p.c.m. sui LEA”. Con la stessa pronuncia è stato dichiarato “non fondato il ricorso dello Stato contro la Regione, motivato con il mancato o incompleto procedimento di cambio di destinazione dei fondi strutturali assegnati per il periodo 2014-2020. La Corte ha osservato che l’eventuale accoglimento delle censure statali avrebbe ulteriormente ritardato i tempi di impiego dei fondi stessi, la cui utilizzazione, ha sottolineato, scade proprio nell’esercizio in corso.
È stata così riaffermata la priorità dell’interesse ad assicurare, nell’arco di tempo previsto dal regolamento, l’effettiva utilizzazione da parte della Regione dei finanziamenti europei, che costituiscono i principali strumenti finanziari della politica regionale di investimento dell’Ue”. “Il principio di leale cooperazione, che deve ispirare necessariamente le relazioni tra Stato e Regioni, impone”, ha affermato la Corte, “che il procedimento concertato, previsto dalla delibera CIPE, o analogo procedimento semplificato, “venga messo rapidamente in atto da entrambe le parti e tradotto nei provvedimenti, comunque indefettibilmente necessari per evitare il definitivo disimpegno dei fondi in esame”.
Tutto ciò, “in ragione della prioritaria necessità di procedere all’impegno e all’attuazione degli interventi entro le scadenze improrogabilmente previste dalla normativa europea”. Insomma, i provvedimenti vanno armonizzati. La lezione siciliana andrebbe studiata a fondo in questa fase. Al netto del valore assoluto della sanità della Lombardia, costretta ad affrontare un evento di portata eccezionale, questo non toglie dal tavolo il tema delle competenze. Lo stato deve controllare tutto, ricentralizzando ogni funzione, oppure il regionalismo temperato ha ancora un senso? Se la collaborazione c’è si vada avanti con le 20 regioni, ma se ogni regione intende far politica marcando il passo da Roma attraverso scelte personali forzate, allora è giunto il momento di rivedere l’intero sistema a partire dalle Regioni a Statuto speciale, un retaggio arcaico del quale non abbiamo più bisogno.