Se, per curiosità, qualcuno aprisse il sito dell’Istituto Bruno Leoni potrebbe leggere l’evoluzione dell’ammontare complessivo del debito pubblico italiano in tempo reale. Ovviamente questo non è il primo pensiero di un qualsiasi navigatore della rete ma potrebbe essere un momento, pochi secondi alla fine, di riflessione su quanto abbia speso finora lo stato al di là di quanto si sarebbe potuto permettere e di quanto realistiche siano le promesse di ogni schieramento in gara per le prossime elezioni. Ma a quanto ammonta, alla fine, il debito italiano? Bene, mentre scrivo queste righe, il contatore indica la cifra di circa 2’789 miliardi di euro.
Sicuramente solo il leggere questa cifra potrebbe causare un piccolo shock ma, per sdrammatizzare, si potrebbe citare una vecchia battuta di Ronald Reagan che ci rassicura che “il debito pubblico è abbastanza grande da badare a se stesso” che, in un qualche modo, non è esattamente molto lontano dalla realtà. Perché, ci chiederà?
Il motivo è che, nonostante tutto, l’Italia è ancora l’ottava economia mondiale e la terza europea, vale il 13,8% dell’euro (è la sua partecipazione alla BCE) ed è evidente che un’eventuale crisi del debito italiano non sarebbe indolore per l’intero sistema economico mondiale e, quindi, non convenga a nessuno né a livello commerciale né a livello finanziario, poiché potrebbe scardinare l’intera euro-area. Detto questo, comunque, non è certo un esercizio inutile provare a valutare lo stato della finanza pubblica italiana.
La prima cosa che va compresa è che nonostante il record a livelli di valore assoluto il debito è in calo in termini relativi al PIL: all’ultima rilevazione, infatti, risulta pari al 152,6% del PIL quando nello stesso periodo dello scorso anno segnava un rapporto pari al 159,3% del PIL.
A livello finanziario il primo indicatore di stabilità del debito è proprio questo rapporto perché la sostenibilità dei conti pubblici va valutata in base alla capacità di produrre reddito di un paese (e, quindi, di essere solvibile) e non meramente sui valori assoluti risultanti dalla sommatoria delle partite correnti di bilancio.
Attenzione, però, che la notizia del calo, anche marcato, del debito non può suscitare alcun sospiro di sollievo; l’indebitamento italiano è ancora troppo elevato per garantire una reale tranquillità sulla tenuta generale del sistema Italia e sulla sua capacità di reazione a nuovi stati di crisi futuri.
Un alto tasso di indebitamento potrebbe andare a creare un deficit di credibilità delle istituzioni e, di seguito, di tutto uno stato anche se, in effetti, va sempre analizzato cosa abbia spinto verso l’alto questo debito.
Se l’innalzamento fosse momentaneo, dovuto a una pronta risposta a uno stato di crisi o a forti investimenti infrastrutturali, difficilmente la crescita, assoluta e relativa, del debito potrebbe avere delle ripercussioni ma, invece, se l’elevato livello di debito fosse strutturale perché spinto dalla necessità di alimentare la spesa corrente e fosse accompagnato da bassi livelli di crescita e da un’elevata pressione fiscale, allora sì che ci sarebbe un problema.
Chi finanzierebbe un alcolista che voglia acquistare un carico di liquori? Ecco questa è l’immagine corretta, chi lo farebbe? Nessuno, almeno a condizioni di favore; si chiederebbero garanzie, tassi e oneri sempre maggiori e scadenze più ravvicinate, cosa che, nel caso del bilancio di uno stato andrebbe a togliere risorse per finanziare i servizi e gli investimenti, per indirizzarli verso la copertura delle obbligazioni in scadenza ovvero a indebitarsi ancora di più per pagare i debiti pregressi oppure ad aumentare le tasse… cosa che in Italia si è continuato a fare da almeno 30 anni a questa parte portando il livello della pressione fiscale tra i più elevati al mondo e riducendo ogni possibilità di azione su questo capitolo salvo spingere alla fuga dei capitali e al progressivo collasso dell’economia nazionale.
L’intero sistema economico, poi, resta più vulnerabile a qualsiasi tipo di shock esterno visto che un elevato livello di debito pubblico rende più oneroso il reperimento di risorse finanziarie anche per il settore privato perché una maggiore rischiosità del debito pubblico si propaga anche al settore creditizio che, dovendo “mettere in sicurezza” gli attivi va incontro a costi maggiori che dovranno essere coperti tramite l’applicazione di margini (di interesse o sulle commissioni nette) più elevati alla clientela.
Non potendo contare su un taglio della spesa in tempi brevi o su un aumento impositivo il dimissionario governo Draghi, ha scommesso sulla crescita economica del sistema Italia, per stabilizzare il debito e riportarlo su un sentiero di rientro, sfruttando le risorse messe in campo dal programma NGEU per uscire dalla crisi generata dalla pandemia di COVID-19 e spingere l’Italia fori dalla stagnazione che l’affliggeva da ormai troppo tempo.
Gli investimenti programmati e il piano di riforme impostato hanno permesso al Paese di segnare un tasso di crescita nel 2021 pari al 6,6% e un tendenziale odierno al 3,4%, cifre che non si vedevano fin dalla seconda metà degli anni 70 del 900, e di portare l’indebitamento in un sentiero di rientro.
Nonostante questi numeri lusinghieri, però, la crescita registrata in questo anno e mezzo non ha ancora permesso all’Italia di recuperare la caduta del PIL generata dalle conseguenze della pandemia e, ammettiamolo, da una gestione assai opinabile da parte del secondo governo Conte delle misure di contenimento dai contagi ma, comunque, sono un segnale importante della resistenza e della reattività del sistema produttivo rispetto alle crisi e alla, ahimè, mediocre gestione della Cosa Pubblica che va avanti da decenni.
Non è una questione di destra o di sinistra o che altro, questa è una valutazione sull’operato di tutte le maggioranze che si siano susseguite nel Paese dagli anni 80, quando il debito pubblico quotava il 60% del PIL, ad oggi, che ne rappresenta una volta e mezza la grandezza, mentre i redditi reali dei cittadini sono calati, negli ultimi 30 anni, del 3%, unico caso tra i paesi OCSE, con la pressione fiscale aumentata da poco più del 31% del 1980 al 43,5% registrato lo scorso anno.
In verità nel 2007, però, lo stock di debito pubblico era calato sotto la soglia psicologica del 100% sul PIL ma le tensioni politiche che portarono alla caduta dell’allora governo Prodi e caratterizzarono il seguente governo Berlusconi bloccarono quell’opera riformista che avrebbe permesso all’Italia di mantenere un equilibrio migliore nella finanza pubblica; la grande crisi finanziaria che scoppiò di lì a qualche mese, fu complice della nuova esplosione del debito che arrivò fino al 130% per, poi, crescere ancora durante il biennio 2020-2021 per contrastare la pandemia fino a quasi il 160% sul PIL.
Ora c’è, però, la possibilità di un progressivo rientro dall’esposizione se i dati di crescita si confermassero stabili e gli investimenti e le riforme indicate nel PNRR fossero realmente efficaci, alcuni analisti indicano che il debito pubblico italiano potrebbe tornare sotto “quota 100” in una decina di anni senza tagli di servizi ma si tratta di una sfida, quella del rilancio del Paese e, diciamolo, della riqualificazione della spesa, che aspetta il prossimo governo che uscirà dalle urne del 25 settembre, bisogna solo sperare che sia in grado di affrontarla.