Categories: Intervento

Quando il sistema di gestione delle acque fa…”acqua” da tutte le parti

Negli USA, in buona parte del Kentucky, da giorni vige lo stato di emergenza. La causa sarebbero le violente inondazioni. Almeno 35 i morti accertati (di cui molti bambini). Il presidente Joe Biden ha dichiarato lo “stato di calamità naturale” in 13 contee del Kentucky e ha promesso di inviare una prima tranche di aiuti alle autorità locali. Anche in molte regioni italiane si parla di “emergenza” idrica: ma a causa di fiumi in secca scarse precipitazioni.

Due casi solo apparentemente lontani e diversi tra loro. Per entrambi non si tratta di “emergenze” ma delle conseguenze di una cattiva gestione delle risorse idriche. Entrambi legati alla gestione dei bacini e delle risorse idriche. L’ennesima dimostrazione dell’incapacità di fronteggiare fenomeni le risorse idriche in due tra i paesi più sviluppati del pianeta.

Secondo il National Inventory of Dams (NID), sono 91.457 le dighe degli USA. Molte sono vecchie, obsolete e per decenni la manutenzione è stata rimandata. Negli USA, l’età media delle dighe è 57 anni, ma molte (oltre 8.000) hanno più di 90 anni. Secondo alcuni studi, 15.621 di queste dighe presenterebbero un potenziale ad alto rischio (circa il 17% del totale). Ben 1.688 dighe sono classificate a rischio. Pochi i controlli: delle 738 dighe affidate al monitoraggio del Corpo del Genio dell’Esercito, solo poche vengono ispezionate ogni anno. E ancora meno sono gli interventi. La relazione 2020 dell’agenzia parla di solo 67 ispezioni di sicurezza effettuate durante l’anno. Eppure di queste circa il 13% avrebbe fatto registrare un DSAC che comprende seri rischi. Nove sarebbero state classificate addirittura DSAC2 (la probabilità di rischio è “troppo alta per garantire la sicurezza pubblica”).

In Italia, la situazione delle dighe non è molto differente. Quasi due terzi delle grandi dighe ha oltre 60 anni. Il 90 per cento è stato costruito prima dell’entrata in vigore delle vigenti norme tecniche, che risalgono al 1982. E molte sono state progettate senza considerare gli eventi sismici (all’epoca non era previsto dalla legge). Per i bacini più piccoli la situazione è, se possibile, ancora peggiore: mancherebbe addirittura un censimento dettagliato dei circa 12mila bacini presenti sul territorio nazionale. Un numero rilevante delle oltre 500 “grandi dighe” (quelle alte oltre 15 metri o con un invaso superiore a un milione di metri cubi) mostrerebbero un pericoloso deterioramento strutturale. Di queste circa 400 sarebbero attive (32 “in esercizio limitato per motivi tecnici”, 81 “in esercizio sperimentale”, 11 “in costruzione o con lavori di costruzione conclusi ma con invasi sperimentali non avviati” e 27 fuori esercizio “per motivi tecnici”). Le restanti (oltre un centinaio) sarebbero fuori servizio. Con conseguenze facilmente immaginabili sulla riserva idrica teoricamente disponibile ma di fatto inesistente.

Subito dopo il crollo del ponte Morandi a Genova, nell’agosto 2018, l’allora ministro delle Infrastrutture, Danilo Toninelli, promise che “a stretto giro” sarebbe stata inviata “a tutti gli enti e soggetti gestori di strade, autostrade e dighe una comunicazione formale in cui si chiede che entro il primo settembre 2018 vengano segnalati al ministero tutti gli interventi necessari a rimuovere condizioni di rischio riscontrate sulle infrastrutture”. Ad oggi, però, secondo i dati del MIT poco sembra essere stato fatto. Secondo il CIFR il Centro Italiano per la Riqualificazione Fluviale, le soluzioni “classiche”, “quelle adottate fino ad oggi per garantire sia la domanda d’acqua per gli usi umani, sia il mantenimento di buone condizioni ambientali, non sono state in grado di dare i risultati sperati e questo nonostante gli imponenti investimenti e un elevatissimo grado di copertura della rete di depurazione”.

Recuperare il tempo passato (senza fare quasi niente) avrebbe un costo elevato. Negli USA, si stima che mettere in sicurezza le dighe richiederebbe non meno di settanta miliardi di dollari: 65,89 miliardi di dollari per le dighe non-federali, quelle gestite dai singoli stati, e 4,78 miliardi di dollari per quelle federali. Un investimento considerevole. Ma ben poca cosa se si pensa a quanto spendono ogni anno gli USA in armi e armamenti. Inascoltate le denunce di associazioni come l’Association of State Dam Safety Officials (ASDSO), che monitora da anni lo stato di salute delle dighe. Vani anche gli appelli lanciati lo scorso 31 maggio, in occasione del National Dam Safety Awareness Day, la giornata dedicata alla tutela e alla preservazione delle dighe negli Stati Uniti d’America (introdotta il 31 maggio del 1889 dopo il crollo della South Fork Dam vicino alla città di Johnstown, in Pennsylvania, che causò la morte di 2.200 persone). Alle azioni concrete si preferiscono promesse e frasi di rito: “Garantire acqua potabile pulita e sicura è un diritto in tutte le comunità”, ha dichiarato il presidente Biden che si era impegnato ad “investire nella riparazione di condutture idriche e sistemi fognari, nella sostituzione di condutture di servizio, nell’aggiornamento degli impianti di trattamento e nel monitoraggio della qualità dell’acqua”. Ha anche detto che nel suo programma è inclusa “la protezione dei bacini idrografici e degli impianti per l’acqua pulita, sviluppando infrastrutture verdi e soluzioni naturali”. Ma poi di tutto questo si è visto molto poco.

Lo stesso è avvenuto in Italia: alle promesse del governo di prendersi cura del sistema dopo il crollo del ponte di Genova non sono seguiti interventi risolutivi. A dirlo sono i dati riportati sul sito della Direzione generale per le dighe: alla data del 10 gennaio 2022, solo il 3% dei lavori previsti risultano avviati. Per il resto, si è ancora alla fase di progettazione (a vari livelli). E per oltre un terzo delle dighe italiane neanche quello. E’ tutto fermo. Ancora peggiore (se possibile) la situazione dei bacini più piccoli: per alcuni non si sa nemmeno chi dovrebbe occuparsi delle opere di manutenzione ordinaria (come la rimozione del limo dal fondo). Eppure non si tratta di interventi straordinari, di risposte a fenomeni eccezionali o emergenziali: si tratta di gestire correttamente quello che già esiste.

Molti dei danni che siccità e temperature elevate stanno causando sono indubbiamente legati alla cattiva gestione delle risorse disponibili. Che si tratti di mancanza di acqua o di esondazioni, la causa è spesso legata alla cattiva gestione dei bacini. La loro manutenzione costa non poco. Ma i danni causati dalla mancata manutenzione potrebbero essere molto maggiori.

C. Alessandro Mauceri: