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Quando la violenza è sul lavoro

L’imperversare della violenza quotidiana sulle donne a cui stiamo assistendo in questi giorni fa emergere con forza, ancora una volta, la necessità di intervenire con urgenza e in maniera adeguata, attraverso il pieno coinvolgimento degli uomini, su quelle sovrastrutture culturali, purtroppo difficili da scalfire, che incidono così drammaticamente nella vita e nelle relazioni di coppia. Anche la difficile conciliazione tra vita lavorativa ed esigenze di cura familiare, sebbene con minor clamore mediatico, rimanda direttamente a questi aspetti che continuano a “mietere vittime” sui posti di lavoro e in particolare tra le lavoratrici.

Nel 2015, così come era accaduto l’anno precedente, infatti, è cresciuto il numero delle dimissioni volontarie e delle risoluzioni consensuali. Questo è quanto emerge dai dati del Ministero del Lavoro relativi alla “Relazione annuale sulle convalide delle dimissioni e risoluzioni consensuali delle lavoratrici madri e lavoratori padri – Anno 2015”, pubblicati in settimana e redatti, come ogni anno, sulla base del monitoraggio svolto dall’Ufficio della Consigliera nazionale di Parità e dalla Direzione Generale per l’Attività Ispettiva del Ministero del Lavoro.

Nel 2015 si sono registrate complessivamente dimissioni e risoluzioni pari a 31.249 posizioni, con un incremento di circa il 19% rispetto alle 26.333 dell’anno precedente, anno che aveva già segnato un +11,27% rispetto al 2013. Il dato riguarda in maggioranza le lavoratrici madri (82%) con 25.620 dimissioni contro le 22.480 del 2014 (+14%), mentre il numero dei lavoratori padri che si sono dimessi o hanno risolto in maniera consensuale il proprio rapporto di lavoro risulta molto più ridotto, sebbene ci sia stato un sensibile aumento (5.629) a confronto con il 2014 (3.853), +46%.

Interessanti anche i dati riferiti alle motivazioni delle dimissioni; oltre a quella più ricorrente legata al “passaggio ad altra azienda”, si confermano rilevanti quelle originate dalle difficoltà di conciliazione tra la cura dei figli e la vita lavorativa, soprattutto per le fasce di età 26-35 anni e 36-45 anni che dimostrano tra l’altro come l’ingresso nel mondo del lavoro sia sempre più posticipato nel tempo. Anche qui si tratta di un aumento rispetto al 2014 e riguarda prevalentemente le lavoratrici, 9.395 posizioni a fronte di 177 convalide relative a lavoratori. Le voci più diffuse rispetto al problema della cura della prole comprendono: “assenza di parenti di supporto”, in 4.791 casi di cui 4700 riconducibili a lavoratrici madri e 91 a lavoratori padri; “mancato accoglimento al nido”, in 3.548 casi di cui 3.482 riferiti a lavoratrici e 66 a lavoratori; “elevata incidenza dei costi di assistenza del neonato”, in 1.233 casi di cui 1.213 relative a lavoratrici e 20 a lavoratori.

Un quadro emblematico che dimostra ulteriormente, con numeri alla mano, come la carenza di servizi di supporto per l’infanzia abbiano un’incidenza negativa non marginale sulla tenuta del posto di lavoro e sul desiderio stesso di maternità, anch’essa sempre più rinviata nel tempo e sempre più ridimensionata nei numeri, ormai ben al di sotto della soglia necessaria per assicurare il giusto ricambio generazionale e guardare con fiducia al futuro del Paese. Non abbiamo parlato del fenomeno delle “dimissioni in bianco”, sicuramente presente “in incognito” tra i motivi dell’abbandono del posto di lavoro, su cui, dopo la legge Fornero del 2012, è tornato il Jobs Act con una nuova procedura telematica che dovrebbe consentire di ostacolare a monte questa bieca forma di discriminazione nei confronti delle donne.

Come Coordinamento nazionale donne Cisl, non possiamo esimerci dal richiamare ancora una volta i responsabili di Governo ad avere più coraggio in termini di strategie politiche per rilanciare lavoro femminile, maternità e condivisione della cura familiare ancora troppo sbilanciata sulle donne. Investire in servizi più adeguati, lo abbiamo visto, mette al riparo il lavoro delle mamme, sostiene concretamente il desiderio di genitorialità delle coppie e salvaguarda dal rischio di povertà cui sono esposte le famiglie con figli. Allo stesso modo, una maggiore apertura delle imprese verso forme di organizzazione del lavoro più flessibili contribuisce al mantenimento del posto di lavoro, a fidelizzare lavoratrici e lavoratori e a migliorare le performance aziendali.

 

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