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Quali sono le terapie più moderne per trattare il Covid-19

La Fondazione Gimbe ha analizzato l’aumento di contagi di Covid 19 in corso nel nostro Paese. Una situazione dovuta, secondo molti, anche ai grandi eventi e concerti che vedono la presenza di centinaia di migliaia di persone, senza mascherina, pur se all’aperto. Pur non azzerando il rischio, le Ffp2 lo riducono, quindi la soluzione di indossarle potrebbe rappresentare una via d’uscita anche se non sicura al 100%. In situazioni di grandi assembramenti, anche all’aperto, l’uso della mascherina è raccomandato. Ma va anche considerato, come sottolinea il Gimbe, che questi eventi si verificano una tantum, mentre le attività quotidiane sono più rischiose nei luoghi ordinari.

Intanto le terapie anti-Covid più moderne si indirizzano all’impiego di anticorpi monoclonali diretti nei confronti di epitopi virali importanti per l’instaurarsi dell’infezione da SARS-CoV-2. Studi condotti nell’animale utilizzando bamlanivimab avevano mostrato buoni risultati nel modello animale, ma quando è stato impiegato in pazienti COVID-19 ambulatoriali per ridurre il rischio di ospedalizzazione, esso non ha fornito risultati favorevoli univoci, tanto che il panel delle linee guida IDSA si è espresso contro l’impiego routinario del solo bamlanivimab nei pazienti ambulatoriali con COVID-19. Oltre al bamlanivimab sono stati introdotti altri anticorpi monoclonali tutti diretti verso la spike, quali casirivimab e imdevimab. Questi anticorpi sono stati prodotti sulla base delle caratteristiche dello spike legate al virus circolante nel 2020 e per questo tutti in qualche modo presentano una riduzione più o meno marcata nei confronti delle nuove varianti del virus.

Dagli studi finora condotti, sostanzialmente emerge che l’efficacia degli anticorpi monoclonali nel prevenire le forme gravi di malattie si verifica se vengono somministrati precocemente, e quindi in pazienti non ospedalizzati, usualmente entro 3-5 giorni dalla comparsa dei sintomi e se somministrati in associazione in modo da bloccare il virus in due diversi epitopi. Attualmente sono disponibili le associazioni bamlanivimab + etesevimab e carisivimab + imdevimab e sotrovimab. L’autorità regolatoria statunitense Fda in base all’attuale prevalente circolazione di Omicron ha sconsigliato l’uso di bamlanivimab, casirivimab e imdevimab, dal momento che questi monoclonali non risultano essere efficaci nei confronti di questa variante che risponde al solo sotrovimab. L’agenzia italiana del farmaco Aifa ha autorizzato l’impiego di queste associazioni in soggetti non ospedalizzati, specie se over 65 anni, non in ossigenoterapia, che, pur avendo una malattia lieve/moderata, risultano ad alto rischio di sviluppare una malattia grave.

Tra i farmaci antivirali, il molnupiravir è un analogo ribonucleico che può essere assunto per via orale e che è in grado in vitro a inibire la replicazione di SARS- CoV-2 sia il virus ancestrale di Wuhan sia le varianti α, β, γ, δ. Sono stati condotti due trial clinici in pazienti ospedalizzati e non ospedalizzati: move-in e move-out. I risultati dello studio move-out in-dicano che la percentuale di ospedalizzazione e morte al giorno 29 era circa del 31% più basso nei soggetti trattati con molnupiravir rispetto al placebo. Inoltre, il farmaco risultava essere ben tollerato. Per essere efficace il farmaco deve essere somministrato entro 5 giorni dalla comparsa dei sintomi e per ulteriori 5 giorni. L’Aifa ha definito le modalità di assunzione e l’indicazione del molnupiravir identificando come popolazione eleggibile i pazienti non ospedalizzati che presentano le stesse condizioni per cui è prescrivibile il remdesivir.

Il Paxlovid, invece, è un antivirale che blocca la proteasi di SARS-CoV-2 e che viene co-somministrato con ritonavir a basso dosaggio per ritardarne il metabolismo. I dati relativi al Paxlovid ottenuti da uno studio condotto in 2246 adulti affetti da forme lievi-moderate di COVID-19 indicano che se il farmaco viene assunto entro 5 giorni dall’insorgenza dei sintomi e per ulteriori 5 giorni riduce in maniera molto significativa (89%) l’ospedalizzazione e il rischio morte. Aifa ha autorizzato l’uso di Paxlovid in pazienti non ospedalizzati identificando per la somministrazione di questo antivirale le stesse con- dizioni cliniche proposte per remdesivir e mulnupinavir. Da tempo, inoltre, l’uso di eparina a basso peso molecolare (enoxaparina) è raccomandata nella profilassi degli eventi tromboembolici nel paziente non chirurgico con infezione respiratoria acuta allettato o con ridotta mobilità, in assenza ovviamente di controindicazioni. Il razionale dell’impiego nei pazienti affetti da COVID-19 delle eparine a basso peso molecolare è legato alla presenza di un quadro clinico ingravescente, che insorge tardivamente rispetto all’esordio a seguito della “tempesta citochinica” e a cui si associano ipomobilità, iperattività piastrinica e un possibile effetto trombogenico del virus.

Tutto questo può rappresentare un fattore prognostico negativo che determina a livello polmonare quadri di vasculopatia arteriosa e venosa con trombizzazione dei piccoli vasi, lesioni queste bene evidenziate a livello autoptico, che possono portare a un’evoluzione verso la fibrosi polmonare. Uno studio retrospettivo cinese condotto in 180 pazienti COVID-19 ha evidenziato che l’impego di enoxaparina è associato a una minore mortalità. Per questo motivo, le linee guida nazionali e internazionali raccomandano l’utilizzo dell’eparina a basso peso molecolare per la profilassi degli eventi tromboembolici nei pazienti ospedalizzati. Si è ipotizzato che il plasma di convalescente, avendo un alto titolo di anticorpi neutralizzanti, poteva avere, se somministrato precocemente, un qualche effetto positivo nel prevenire le forme gravi di malattia. Studi iniziali non controllati avevano confermato questa ipotesi, anche se successivi trial randomizzati non hanno dimostrato alcun beneficio clinico. Pertanto, sulla base di questi dati non ci sono evidenze che supportino l’impiego del plasma iperimmune di convalescente nella terapia di COVID-19.

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