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Quali sono le più importanti sfide ambientali

Non passa giorno senza che non si parli delle sfide legate ai cambiamenti climatici. Ormai incontrovertibili le prove delle responsabilità dell’uomo resta da capire cosa fare. Poche settimane fa, a Glasgow, il documento finale della COP26 non ha fornito linee guida soddisfacenti. Troppi i punti discordanti tra i paesi del Nord e quelli del Sud del pianeta derivanti da disuguaglianze economiche, sociali e geopolitiche e dalla responsabilità dei cambiamenti. Da un lato il Nord, sviluppato, ricco, indebitato in modo impressionante e
palesemente responsabile dei danni all’ambiente, si ostina a non farsi carico dei danni causati. Dall’altro il Sud, povero, sottosviluppato, che chiede giustizia.

Tutti argomenti dai quali emergono le conseguenze delle scelte dei paesi più sviluppati sulla
“resilienza” del pianeta. E sui paesi più poveri. Ad esempio, in questi paesi la produzione di rifiuti solidi urbani è molto bassa. La media globale di RSU è 4,3 libbre di rifiuti per persona al giorno. Al contrario paesi come gli USA hanno raggiunto livelli spaventosi: 220 milioni di tonnellate all’anno. Quantità difficili da gestire (nonostante le belle parole e le promesse dei governi “verdi”, gran parte di questi rifiuti finisce nelle discariche) con conseguenze rilevanti sull’ambiente: generano enormi quantità di metano, uno dei peggiori gas serra a causa del suo alto potenziale di riscaldamento globale.

I cambiamenti climatici hanno impoverito molti paesi poveri del Sud e ridotto alla fame milioni di persone: dopo anni di miglioramenti, la FAO ha dovuto ammettere che la malnutrizione è tornata ad aumentare. Soprattutto nei paesi del Sud del mondo. Eppure, nel Nord del pianeta, un terzo del cibo destinato al consumo umano – circa 1,3 miliardi di tonnellate – viene sprecato. Una quantità che basterebbe per nutrire 3 miliardi di persone. Nei paesi sviluppati, il 40% degli sprechi alimentari avviene a livello di vendita al dettaglio e di consumo: negli Stati Uniti, oltre il 50% di tutti i prodotti alimentari buttati finiscono nella spazzatura perché considerati “troppo brutti” per essere venduto ai consumatori (circa 60 milioni di tonnellate di frutta e verdure). E nei paesi in via di sviluppo, il 40% degli sprechi alimentari avviene a livello post-raccolta e lavorazione. Nei Sud del mondo, invece, quasi niente va sprecato. Tutto questo ha un impatto non indifferente sull’ambiente: gli sprechi e le perdite alimentari rappresentano 4,4 gigatonnellate di emissioni di gas serra all’anno. Se lo spreco alimentare fosse un paese, sarebbe il terzo più grande emettitore di gas serra, dopo Cina e Stati Uniti d’America!

Notevoli gli effetti di tutto questo anche sulle riserve di acqua dolce: ogni giorno nel mondo due milioni di tonnellate di liquami, rifiuti agricoli e industriali inquinano l’acqua potabile. I cicli riproduttivi vengono alterati, gli habitat per gli animali selvatici distrutti e aumenta la perdita di biodiversità (oggi scompaiono 30.000 specie ogni anno). Questo, unitamente alla pesca eccessiva, causa pesanti squilibri sull’ecosistema degli oceani: si stima che il 63% degli stock ittici globali siano sovra-sfruttati.

Anche il sovraffollamento delle grandi città causa problemi come l’aumento dell’inquinamento dell’aria e dell’acqua e la creazione di “isole di calore”. Le immagini satellitari prodotte dalla NASA dimostrano, inoltre, come l’espansione urbana abbia effetti negativi sulla frammentazione delle foreste.

Le differenze tra l’impatto ambientale nel Nord e nel Sud del pianeta è imbarazzante. Circa metà della popolazione globale vive nei paesi a reddito alto e medio-alto (quelli del Nord del pianeta) ma è responsabile dell’87% delle emissioni di CO2! L’altra metà della popolazione globale, quella che vive nei paesi a basso reddito, è responsabile solo del 13,4% delle emissioni di CO2. Ad esempio, la Nigeria è il settimo paese al mondo per numero di abitanti, poco meno degli USA, eppure il suo consumo di petrolio è meno di un sesto di quello americano. Le Filippine hanno quasi lo stesso numero di abitanti del Giappone, ma il loro consumo di combustibili fossili è un decimo di quello del paese del Sol Levante. E così l’Egitto: il numero di abitanti è il triplo di quello dell’Arabia Saudita, ma il suo consumo di petrolio è meno di un terzo. E nessuno di questi paesi “sviluppati” sembra voler agire concretamente per salvare l’ambiente. Spesso i paesi sviluppati parlano di ambiente, di politiche “verdi”, ma basta leggere i “numeri” per far crollare questi castelli di carte. Ad esempio, la plastica, derivato del petrolio, è da decenni oggetto di analisi, discussioni e promesse. Eppure nessuno sembra volervi rinunciare (incuranti degli effetti che produce sull’ambiente): la sua produzione è aumentata (e continuerà a farlo nei
prossimi anni) secondo il Rapporto sul mercato globale della produzione a contratto in plastica. Anche la proposta di eliminare le auto a benzina o gasolio o le ibride nell’Ue entro il 2030 servirà a poco: secondo uno studio del 2018, “le sedici navi più grandi emettono la stessa quantità di CO2 di tutte le auto del mondo” e “una grande nave portacontainer inquina quanto 50 milioni di automobili”.

A cosa sono serviti i quintali di rapporti per gestire la governance globale prodotti durante gli incontri internazionali? Le scelte prese finora sono state insufficienti per far fronte ai cambiamenti ambientali causati dal consumismo dei paesi sviluppati e dalle multinazionali (la prova concreta è il documento finale della COP26, frutto delle pressioni di centinaia di influencers legati, direttamente o indirettamente, alle multinazionali). Quello di Glasgow è stato solo l’ennesimo caso di quella che economisti come Nicholas Stern definiscono “cattiva governance”: la crisi climatica è il risultato di molteplici fallimenti del mercato.

Per anni l’invito di economisti e ambientalisti di aumentare il prezzo delle attività
responsabili delle emissioni di gas serra (uno dei maggiori problemi ambientali) e di finanziare massicciamente l’innovazione verde è rimasto inascoltato: solo pochi paesi hanno adottato una tassa nazionale sul carbonio (oltre ad alcuni paesi Ue, Canada, Singapore, Giappone, Ucraina e Argentina). Il resto del pianeta, come emerge dal rapporto OCSE sull’uso dell’energia fiscale del 2019, continua ad adottare politiche fiscali che non tengono conto delle conseguenze che producono sull’ambiente.

Non è una novità: anche il tanto osannato accordo di Parigi del 2016, all’interno della Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, si basava su adesioni “volontarie”. Promesse, parole per nascondere una realtà per niente rispettosa dell’ambiente: da decenni nei paesi sviluppati (inclusa l’Ue) vengono utilizzati sistemi per la “compensazione delle emissioni” di CO2. Le emissioni di CO2 in esubero generate dalle industrie dei paesi sviluppati vengono vendute al miglior offerente in cambio di aiuti
o di promesse non sempre mantenute. Tutto con un solo scopo: consentire ai paesi sviluppati o in via di sviluppo, quelli del Nord del pianeta, di emettere di più costringendo i paesi più poveri, quelli meno sviluppati, spesso nel Sud del pianeta, a rispettare parametri per limitare i danni causati da altri. E salvare un ambiente che loro non hanno mai minacciato.

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