L’insediamento del nuovo governo avviene in un momento particolare, forse il peggiore dopo la crisi pandemica dello scorso biennio e, certamente, non propizio alla “messa a terra” del programma di sviluppo che la compagine di centrodestra, guidata da Giorgia Meloni e da FdI, vorrebbe portare avanti. Nonostante il 2022 si sia aperto sotto i migliori auspici la crisi ucraina ha colpito pesantemente dal lato delle risorse energetiche rinvigorendo il processo di surriscaldamento dell’inflazione che la ripresa post pandemica aveva innescato e l’azione di contenimento della BCE non promette alcun reale miglioramento di scenario nei prossimi mesi e di questo occorrerà tenerne conto nell’elaborazione della politica economica italiana nei prossimi mesi.
Vero è che almeno due buone notizie ci siano e che permetteranno una maggiore flessibilità di manovra ma il quadro in cui ci si dovrà muovere sarà sicuramente uno dei più complicati degli ultimi anni, almeno fin dalla crisi del 2011. Quali sono le “buone nuove”, però?
In primis la crescita delle entrate fiscali, + 10,9% rispetto ai primi mesi del 2021, senza che sia stata prevista alcuna nuova imposta, cosa che sottolinea il buon andamento nei primi 9 mesi dell’anno dell’economia italiana che ha permesso l’ampliamento della base imponibile e, di conseguenza, dell’incasso tributario, oltre che, ovviamente, al venir meno delle previsioni di proroga e sospensione dai versamenti previsti dai passati Decreto Rilancio e Decreto Agosto. Si parla di 37 miliardi di euro in più, per dirla in soldoni, che potrebbero essere imputati ai provvedimenti più urgenti o, più probabilmente, a coprire certe partite di spesa lasciate aperte dai governi precedenti come il superbonus che ha generato oneri superiori al preventivato quasi pari a questa cifra, infatti.
In secundis parliamo dell’unico effetto positivo della crescita dell’inflazione che è l’allentamento del peso del debito pubblico, infatti il debito, per definizione, è calcolato in termini nominali e un’inflazione positiva va a erodere il valore reale dello stesso e in una situazione come quella italiana, dove i due governi a traino pentastellato e la crisi pandemica lo hanno spinto a livelli mai visti prima (almeno in Europa), non può che beneficiarne.
Adesso, però, passiamo alle notizie non proprio felici (per usare un eufemismo). I prezzi energetici restano estremamente alti, nonostante il TTF, il future sulle forniture di gas, si sia sgonfiato rispetto ai massimi di agosto ma, per il momento, resta oltre quattro volte più elevato rispetto ai livelli della primavera 2021 e ancora alto rispetto ai supporti il cui sfondamento verso il basso andrebbe a confermare il trend ribassista. Il petrolio è, invece, già in direzione di una normalizzazione della quotazione anche se i prezzi alla pompa dei carburanti restano assai più elevati anche rispetto ai massimi storici, toccati nel 2008 e in misura minore nel 2011, del barile di greggio, questo nonostante lo “sconto” di 0,30 euro al litro sule accise previsto dal governo e tutt’oggi prorogato.
Per la cronaca, seppur sia vero che i margini delle aziende petrolifere siano cresciuti circa del 20% rispetto al 2018 (e ancor più rispetto al 2019, ad esempio) questi seguono il prezzo delle materie prime e sono ampiamente marginali sul costo finale dei carburanti, poiché si passa da uno 0,223 euro/litro del 2018 a 0,268 euro/litro odierno e non è possibile, quindi, parlare di speculazione in tal senso ma andiamo avanti.
A fronte di questi dati, però, i prezzi finali per famiglie e imprese, restano estremamente alti e il mancato accordo sul price cap europeo, che slitta mese dopo mese, rende impellente un intervento deciso da parte governativa prima che l’energia diventi il vero discrimine tra il fallimento di un’azienda e la sua sopravvivenza.
Di qui la previsione già nella NADEF di destinare 9 miliardi del maggiore gettito fiscale registrato per alleviare il peso delle bollette a cui si aggiungeranno altre risorse, anche derivanti da un eventuale scostamento di bilancio che potrebbe essere approvato già con la manovra di fine anno, fino ad arrivare a 21 miliardi per il 2023.
È evidente che un intervento di questo genere, unito ai già ipotizzati tagli al cuneo fiscale e alla detassazione di premi di produttività e all’allargamento dei fringe benefit per spingere i redditi degli italiani, ormai compressi da un trentennio, non lasci molto spazio, almeno per il momento, ad altre iniziative come la flat tax o una riforma più permissiva delle pensioni che dovranno essere, credibilmente, rimandate a tempi più tranquilli.
In questo quadro nascerà la prossima legge di bilancio dove tutte le risorse saranno indirizzate a fronteggiare la situazione contingente che non può essere definita in altro modo se non critica che punterà, anche all’efficientamento della spesa per ottenere nuove risorse a copertura dei principali capitoli di spesa e alla rimodulazione sia del super bonus, che dovrebbe essere riprogettato secondo un principio di sostenibilità (anche a livello di impatto sui mercati), e un taglio al Reddito di Cittadinanza.
Alla necessità di supportare imprese e famiglie contro il caro energia e di ridare potere d’acquisto ai cittadini, perché è bene ricordarlo sempre che il primo pilastro che possa spingere la crescita economica è la domanda interna, si contrappongono uno scenario geopolitico instabile, tra la guerra in Ucraina e le tensioni in estremo oriente, e l’azione di contrasto all’inflazione della BCE che sembra voler seguire, anche se in maniera meno aspra, il percorso aperto dalla FED oltreoceano senza aver valutato la vera natura del boom inflazionistico europeo, di origine esogena, che è completamente differente da quello che sta vivendo l’America, che deriva dalla politica espansionista del governo Biden.
Ora un rialzo eccessivo dei tassi potrebbe spingere tutto il continente in una nuova recessione (che sembra non preoccupare i membri del board della Banca Centrale che, anzi, parrebbero quasi auspicare) dimenticando che a rischio insolvenza non ci siano solo gli stati con alto livello di debito pubblico ma anche (e soprattutto) quelli con elevato livello di indebitamento privato (come la maggior parte degli stati “virtuosi” e che si pongono come “falchi” monetari) che potrebbe provocare una nuova ondata di NPE nelle banche paralizzando il settore creditizio che rappresenta la “cinghia di trasmissione” di tutto il sistema economico.
Spazi per nuovi salvataggi, soprattutto dopo i due anni di pandemia e l’avvio del programma NGEU che è però vincolato a un preciso e già approvato progetto di rilancio dell’economia, sono pochi ovunque, la coperta è corta, infatti, e la gestione della situazione contingente va portata avanti con un sapiente gioco di bilancini per evitare un possibile tracollo di tutto il continente.