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Puntare sulla famiglia, curare le fragilità

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Più passa il tempo e più prendiamo coscienza dell’enorme spallata che la pandemia ha inflitto a tutti gli aspetti del nostro vivere quotidiano, tanto personale quanto sociale. Certamente il mondo intero si è dimostrato completamente impreparato ad affrontare un contagio globale e, in particolare, a prevedere un sistema organico di misure e provvedimenti finalizzati a proteggere le categorie più deboli della popolazione, soprattutto disabili ed anziani.

Un paio di settimane fa è stato pubblicato un rapporto internazionale, elaborato dall’Università di Pretoria, dal titolo “Disability rights during the pandemic”, in cui si analizza la condotta di 134 Paesi, soprattutto europei e nordamericani, in ordine all’emergenza COVID19. Il panorama è davvero desolante: nel 33% dei casi i governi non hanno adottato nessun tipo di misura per proteggere la vita, la salute e la sicurezza delle persone disabili che vivono in una struttura. I provvedimenti messi in campo sono stati quasi esclusivamente di ordine restrittivo: sospensione delle visite di familiari e amici, isolamento quasi totale, netto calo dei controlli sanitari, contatti informativi con l’esterno attraverso Internet, non tenendo conto che la maggior parte delle persone “fragili” non sono in grado di gestire Internet!

In mezzo a tante ombre, una piccola ma significativa luce possiamo individuarla comparando questi dati con quanto è accaduto e sta accadendo nel nostro Paese. Da noi molte delle necessarie misure di sicurezza sono state rapidamente messe in atto: distribuzione di dispositivi di protezione personale, sanificazione delle strutture residenziali, buone prassi di inclusione sociale, grazie anche al virtuoso sforzo operato da organizzazioni di persone con disabilità (per colmare inequivocabili lacune dello Stato). Cellulari, videochiamate, iniziative di teleassistenza hanno cercato di colmare l’abbandono sociale, affettivo ed emotivo, la solitudine pesante come un macigno, che presentava derive di vero e proprio abbandono.

A soffrire maggiormente i disagi dell’emergenza sono certamente i bambini disabili con le loro famiglie. Esclusi per la quasi totalità dalla didattica a distanza (DAD) – a proposito: come si può pensare di utilizzare la DAD per un bambino con disturbo della sfera autistica?! – il venir meno anche del supporto della comunità di riferimento (centri diurni e associazioni ad hoc) ha gettato nello sconforto intere famiglie, già provate dai ben noti problemi economici, legati alla chiusura o grave riduzione dell’attività lavorativa.

Sul piano delle politiche sociali, la pandemia ci ha indicato la necessità di un profondo cambiamento di rotta: non va abbandonato il “welfare di protezione”, di mero carattere assistenziale individuale, ma questo da solo non regge; è indispensabile passare a quello che i sociologi chiamano un “welfare di comunità”, di prossimità, di appartenenza e ad una sanità territoriale che, riconoscendo le necessità delle persone con disabilità, li metta al centro di condotte mirate ad hoc.

Ciò comporta un radicale cambiamento di prospettiva, passando dall’istituzionalizzazione come unica risorsa, al sostegno della domiciliarità, anche attraverso una rivisitazione dei LEA (livelli essenziali di assistenza) e con la definizione ed adozione dei LEP, livelli essenziali di prestazioni sociali. Non è un progetto impossibile o utopico, ma impone una chiara scelta di campo, che favorisca due capisaldi che si sostengono o precipitano insieme: disabili, fragili e famiglia. E’ sotto gli occhi di tutti che l’unica “rete”, l’unico vero “paracadute” che sta funzionando oggi nel nostro Paese è la famiglia, le strette relazioni parentali, il sostegno reciproco fra generazioni diverse, il welfare per antonomasia, fatto di sacrifici, interdipendenza, soccorso, rinunce, oblatività in cui “l’altro è me stesso”.

Nessuno Stato – per virtuoso che sia – potrà mai sostituirsi alla famiglia e, per converso, ogni Stato che ignora o, peggio, tenta di affondare la famiglia, sta di fatto decretando il proprio suicidio. Una madre e un padre posseggono una carica vitale per i propri figli (in particolare se disabili!) che nessuna agenzia sociale potrà mai eguagliare. L’attenzione verso la nonna/il nonno decaduto non potrà mai essere vicariato da tutti i supporti sociali del mondo.

Abbiamo di fronte, nei prossimi mesi, una grande opportunità. Si chiama “recovery plan”. Sentiamo quotidianamente parlare di questa “carriolata” di miliardi che dovrebbero entrare nel nostro Paese; ma, purtroppo, non sentiamo affermare con altrettanta assiduità e chiarezza che il primo, imprescindibile, fondamentale capitolo di investimento deve chiamarsi famiglia e fragilità.

La famiglia è una rete sociale naturale che non deve essere inventata con alchimie sociali, ma chiede solo di essere riconosciuta e aiutata. Sia sul piano economico che su quello delle politiche culturali e sociali. Famiglia significa vita, natalità, procreazione, aiuto ed assistenza reciproca ed intergenerazionale: le sciagurate politiche degli ultimi anni, che hanno ideologicamente destrutturato e ferito la famiglia, stanno producendo i loro frutti malsani, dall’inverno demografico al fallimento del welfare. Purtroppo, è sotto gli occhi di tutti e solo chi è accecato dall’ideologia può, o vuole, non vedere.

Come ha di recente affermato un noto demografo: “Abbiamo il dovere morale e sociale di sviluppare alternative concrete per vincere l’inverno demografico, anche ricordandoci che un domani non troppo lontano saremo tutti anziani e molto probabilmente poco autosufficienti”. Possiamo e dobbiamo cambiare rotta. E’ possibile. Partiamo dal Recovery Plan.

Massimo Gandolfini: