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Premierato, la scommessa politica contro l’ingovernabilità

Il premierato, ovvero la riforma costituzionale attorno alla quale si avvita un bel pezzo della scommessa politica messa sul tavolo dalla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha affrontato al Senato il suo primo passaggio parlamentare. Per la maggioranza si tratta un tornate importante sul percorso della legislatura, anche se non fondamentale. Come ha spiegato la stessa premier qualche settimana fa, il referendum sulla riforma non sarà un voto pro o contro di lei, come volle fare Matteo Renzi a suo tempo, restando impallinato dal giudizio popolare, ma una legittima espressione degli italiani.

Non a caso l’opposizione considera il passaggio parlamentare sul premierato decisivo per serrare le fila, nell’ottica di un attacco più forte nei confronti dell’esecutivo, sempre ammesso che il centrosinistra, declinato nella versione campo largo, riesca a fare sintesi, considerando la libera uscita di Italia Viva. Ma la partita sul premierato dirimente lo è sicuramente per la maggioranza, alla ricerca di quel punto da segnare sul tabellone. Non a caso per la seduta di ieri c’è stato il serrate le fila, con un perentorio richiamo all’ordine da parte dei presidenti dei gruppi parlamentati.

Al Senato, quindi, è andata in scena la classica seduta delle grandi occasioni, con tutti gli eletti precettati. E il copione è stato rispettato. Con 109 voti a favore, 77 contrari e 1 astenuto il Disegno di legge di riforma costituzionale ha ottenuto il via libera dell’Aula del Senato. A favore si sono espresse le forze di maggioranza, tutte contrarie le opposizioni. Otto gli articoli del Ddl sul premierato che introducono, tra le altre in Costituzione, l’elezione diretta del presidente del Consiglio.

L’approvazione del documento, noto come premierato, è la prima tappa di un percorso parlamentare che prevede altre tre letture, a partire dalla prossima alla Camera dei deputati. L’articolo 138 della Costituzione recita: “Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di Camera nella seconda votazione”.

“Con il voto del Senato abbiamo fatto un importante passo in avanti verso la riforma del Premierato. Una riforma che stiamo facendo per l’Italia, perché servire al Paese, non al governo in carica. Il no pregiudiziale delle opposizioni, che oggi sono anche in piazza, non danneggia l’esecutivo o la maggioranza, ma la nostra Nazione, perché l’unico intento che ci muove è rendere l’Italia più forte, più stabile e più credibile”, afferma Luca Ciriani, ministro per i rapporti con il Parlamento, “ci auguriamo che per i prossimi passaggi di esame del provvedimento i partiti di opposizione decidano di cambiare atteggiamento e di dare vita ad un vero dialogo nel solo interesse degli italiani”. Un invito, quello dell’esponente di Fdi, più che un auspicio.

I partiti dell’opposizione, nettamente contrari alla riforma, dopo il voto in Aula hanno dato vita a una protesta in piazza per contestare l’azione della maggioranza e mettere all’indice il governo, accusato di voler cambiare le regole del gioco. In Aula alcuni senatori della maggioranza e dell’opposizione hanno sventolato la Costituzione al termine del voto al disegno di legge costituzionale sul premierato. Diversi senatori della maggioranza hanno anche mostrato delle bandiere tricolori. “Giorgia Meloni, incapace di affrontare i problemi del Paese, cerca di cambiare la Costituzione, affermando che la riforma costituzionale è assolutamente necessaria. Che, anzi, lei non riesce a governare perché i lacci istituzionali glielo impediscono”, attacca a testa bassa il capogruppo del Pd, Francesco Boccia.

“La riforma sul Premierato passa in Senato. Un primo passo in avanti per rafforzare la democrazia, dare stabilità alle nostre Istituzioni, mettere fine ai giochi di palazzo e restituire ai cittadini il diritto di scegliere da chi essere governati” replica sui social la premier, Giorgia Meloni. Al di là delle classiche schermaglie, delle naturali considerazioni da battaglia in corso, il nodo centrale resta sempre lo stesso. La nostra Costituzione ha bisogno o no di un tagliando? Serve o no adeguare i meccanismi della politica, o se preferite le regole del gioco, ai tempi moderni, dove la rapidità è una necessità?

Ma soprattutto la riforma che proponeva Matteo Renzi, alla guida di un governo di centrosinistra, era migliore o peggiore di quella messa sul tavolo da Giorgia Meloni alla guidava di un esecutivo di centrodestra? Senza voler essere troppo polemici, sostenere che la Costituzione, la nostra suprema carta, non si può toccare è quanto di più antistorico possa esserci. Proprio perché la storia è fatta di cicli, di corsi e ricorsi, come sosteneva il filosofo, storico e giurista Giambattista Vico, è necessario comprendere in quale fiume stiamo navigando attualmente, essendo ben diverso da quello di 20 o 30 anni fa.

Oggi serve poter rispondere con rapidità alle pressanti domande del presente. La lentezza del passato, legata alla necessità di blindare le istituzioni è un costo troppo alto per tutti. Di fatto, qundi, il problema Costituzionale italiano è il governo non certo il presidente della Repubblica, che funziona benissimo. Un governo che da oltre dieci anni, ovvero da Mario Monti in poi, non ha mai avuto un presidente del Consiglio che fosse espressione di una indicazione elettorale da parte dei cittadini. Addirittura da Renzi in poi, il presidente del Consiglio non è stato nemmeno eletto come parlamentare. Questo sistema ha favorito una disaffezione elettorale, perché i cittadini non sono stati messi in condizione di conoscere da chi sarebbero stati governati. Questo sistema ha consentito il formarsi di più governi nella stessa legislatura, addirittura con maggioranze politiche diverse (come nel recente caso dei governi Conte 1 e 2).

Questo sistema ha prodotto ancora di più la ingovernabilità. Da qui la scelta del premierato. Il disegno di legge costituzionale del governo, che prevede la riforma del premierato, interessa quattro articoli della costituzione. Quindi, non uno stravolgimento costituzionale, piuttosto un intervento puntuale su quelle norme che riguardano il capo del governo e la sua maggioranza parlamentare. Per chi sostiene le ragioni del no, invece, dalla riforma sembra derivare, a fronte dell’auspicio di maggiore stabilità parlamentare, un eccessivo irrigidimento dei rapporti tra governo, maggioranza e minoranze, poco o nulla funzionale alla buona conduzione del Paese.

Né può giovare l’indicazione, peraltro puramente nominalistica, che si tratterebbe di una forma di neo parlamentarismo già da tempo sperimentato con successo nelle amministrazioni locali, giacché altro è il compito di un sindaco o anche di un presidente di Regione, altro il ruolo di un capo di Governo; o, per dirla diversamente, una cosa è amministrare, altra cosa indirizzare, coordinare, se non quando decidere, l’indirizzo politico generale. Ma prima di tagliare il traguardo c’è ancora un bel po’ di strada da fare, e sul percorso incombe l’ombra del referendum sulle riforme.

“Se dovessimo guardare ai risultati di questa prima giornata, è più probabile, non certo. Il ricorso al referendum, poi è la santificazione del volere popolare, quindi non è niente di drammatico, anzi”, dice il presidente del Senato, Ignazio La Russa, “però, da qui alla fine delle quattro votazioni che l’articolo 138 prevede, tutto è possibile. Insomma”, aggiunge la seconda carica dello Stato, “non metterei il carro davanti ai buoi. Oggi come oggi è più probabile che siano, come è bello, i cittadini a dire la parola definitiva, sperando in un’alta partecipazione. Però questa è un’ipotesi, il resto lo vediamo”. Com’è facile intuire il dibattito è ampio e articolato, ma proprio per questo necessario. Almeno per chi ritiene una priorità portare il Paese nella modernità, evitando di lasciarlo imbalsamato dentro una teca. Come la copia originale della Costituzione….

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