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Il metodo di selezione della classe politica

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La “drole de guerre” avviata ormai da un mese su destino del governo non è riuscita ancora a sfociare in azioni concrete. Ma non è detto: niente è più pericoloso della calma prima della tempesta, sempre che la tempesta si decida ad arrivare, ed anche questo non è detto. Così, tra scenari ineluttabili quanto irrealizzati si trascina stancamente una stagione morta di tattiche e mosse studiate a tavolino. Niente di più deprimente delle enormi energie spese da talenti non eccelsi per raggiungere risultati modesti. I talenti veri, con altrettanta fatica, spostano le montagne; qua invece è un piattume.

Ora, non si creda che Matteo Renzi non riuscirà ad ottenere nulla. Se le ultime voci lo vorrebbero accontentarsi di un dicastero alla Difesa per Maria Elena Boschi, mica è sicuro che sia questo lo striminzito esito finale. Nulla ci toglie dalla testa che in fondo un ritorno a Palazzo Chigi non gli dispiacerebbe. Sì: l’obiettivo è fuori della sua portata, ad un ragionamento razionale. La razionalità, però, l’è morta come la pietà, ed in più la debolezza intrinseca del quadro politico generale sembra fatta apposta per alimentare i più astrusi sogni di gloria. E magari per renderli concreti. I

l Pd, perso com’é tra l’esigenza di essere un partito della sinistra progressista ed una prassi dorotea, chissà cosa sarà disposto ad accettare, pur di non regalare il paese alle destre con una tornata elettorale che nessun elettore capirebbe. Un voto punitivo sarebbe il più probabile, anche se punire in democrazia spesso vuol dire condannarsi da soli a guai peggiori.

Quanto alle destre, la leggera ripresa di Forza Italia sta alimentando in Silvio Berlusconi legittime speranze di recupero. Ma il cammino è ancora lungo, soprattutto se si considera che sarebbe necessario un ritorno in massa di quei consensi fuggiti nel corso di anni verso Lega e Fratelli d’Italia. Salvini guida quello che è ancora il partito più popolare, i cui consensi – per intenderci – doppiano più che abbondantemente quelli del Cavaliere. Le speranze, al momento, tali restano. Anche se i fatti di Washington non sono di quelli che spariscono senza lasciare segni di sorta, e questo ci permette una ulteriore riflessione.

Da quando un gruppo di scalmanati ha dato l’assalto a Capitol Hill qualcosa si è mosso nelle menti e nelle coscienze, non solo quelle americane. Sale da più parti il desiderio di un ritorno alla politica dai toni e dai contenuti civili: “moderati” per quel che la parola – generica ed abusata – possa voler dire. Moderato si presenta Renzi, moderatissimo Berlusconi. Moderato è Joe Biden, almeno nel campo del sociale e nei toni del dibattito politico.

Bene, a tutti piacciono l’equilibrio e la serietà. Il punto è: come raggiungere questo nirvana della buona politica? Renzi e Berlusconi, per dire, sono facilmente e motivatamente tacciabili di aver in passato indugiato ad atteggiamenti protopopulisti, si pensi solo ai loro rapporti con quell’Europa da cui tutti ora invocano il Recovery Fund. Quanto alla politica sociale, i fatti parlano da soli. Sulla difesa dei valori etici e della vita o non si è fatto nulla, o addirittura si è corso dietro alla Cirinnà. Per brevità diremo solo che, se questi sono i moderati, figuriamoci cosa c’è alle estreme. Lo stesso Conte, poi, porta sulla fronte come un Harry Potter il segno di quel Voldemort che fu il governo più populista della storia nazionale, e che lui personalmente guidò.

No, non è questa la via d’uscita. Ce lo suggerisce una constatazione, dentro la quale c’è tutto il succo della questione. Per far emergere il centro, la moderazione, il giusto mezzo sia esso cavourriano quanto degasperiano, sarebbe necessario mutare il metodo di selezione della classe politica. Vale a dire: piantarla con i partiti personali o similpersonali, perché i partiti ben strutturati organizzativamente quanto culturalmente preparano meglio la classe dirigente. Ma per raggiungere il risultato non basta nemmeno questo. O, meglio, esiste l’altra metà equivalente della questione, perché anche questo genere di partiti non nascono in un regime politico caratterizzato dallo scontro e dal muro contro muro. Che invece prospera con un sistema elettorale che, nel nome delle facili soluzioni, finisce per premiare gli uomini della provvidenza e la logica del chi vince comanda, anche se solo con il 50 percento più uno.

Alle corte: il maggioritario non aiuta. Anzi, complica non poco le cose invece di semplificarle, come invece promette. Un sistema proporzionale avrebbe imposto ad un Trump di evitare i deliri solipsistici e ad un Johnson una irresponsabile fuga verso la Brexit (chi avesse dubbi in tal senso, guardi come sarebbe stata più moderata e centrista la ripartizione dei seggi alla Camera dei Comuni, con un diverso criterio di assegnazione). Senza considerare, poi, che la rappresentatività delle istituzioni democratiche aumenta, con un calcolo proporzionale, e le rende molto più vicine al cittadino elettore.

Ma da noi accade il contrario. A settembre il populismo grillino ha imposto il taglio dei parlamentari, ed il popolo sovrano ha entusiasticamente accettato il che rende la decisione pienamente legittima e cogente. Ma si era detto, giustamente, che occorreva mettere in atto una serie di aggiustamenti per impedire che una parte politica, rappresentativa in termini reali di nulla che non sia una estesa minoranza, possa fare cappotto e prendersi d’un sol colpo o quasi tutto: Camere, Palazzo Chigi e Quirinale.

Che è successo, invece? Al posto di fare anche solo il primo ed essenziale di questi aggiustamenti, da tutti individuato nel varo di una legge elettorale proporzionale, ci si è accontentati di ridisegnare i collegi elettorali per il Rosatellum, cioè quel disastro che abbiamo ora, rendendolo pronto alla bisogna in caso di elezioni anticipate. La legge che permetterà anche dopo il prossimo turno elettorale ai populisti di trionfare, e ai moderati imporrà l’irrilevanza. E intanto i mediocri penseranno di smuovere, con le loro astuzie, le montagne, mentre in realtà saranno solo topolini.

Nicola Graziani: