Se la Corte costituzionale dichiarasse ammissibili tutti i quesiti referendari proposti – quelli sulla giustizia, richiesti da cinque consigli regionali, e i due sul fine vita e sulla droga -, in primavera gli elettori sarebbero chiamati al voto per ben otto referendum, sempre che l’appuntamento non slitti per eventuali elezioni anticipate.
Le modalità di proposizione dei quesiti, e anche il loro contenuto, hanno fatto sorgere perplessità su un istituto in sé apprezzabile, perché nell’ottica dei Costituenti avrebbe dovuto rappresentare una sorta di temperamento popolare rispetto a leggi ritenute da gruppi di cittadini così inaccettabili da sollecitarne l’abrogazione, totale o parziale; e quindi, in definitiva, rispetto a leggi fortemente divisive, per le quali si possa agevolmente cogliere la posta in gioco, ed esprimersi senza incertezze con un sì o con un no.
Se leggiamo taluni dei quesiti sulla giustizia, per es. quello sulla separazione delle carriere, constatiamo che il mix fra complessità della materia e natura abrogativa del referendum ha prodotto un testo così lungo che trasformerà la scheda di votazione in un lenzuolo: a costo anche della sua totale non comprensione, a meno che non ci si doti, insieme con la scheda, di un p.c. collegato a una banca dati giuridica, o di una raccolta aggiornata di leggi. Larga parte dei quesiti esige conoscenze specialistiche, attiene a settori ipertecnici, e mal si presta al semplice sì o al no della scheda.
Si replicherà che, una volta manifestata la volontà degli elettori, il Parlamento ricucirà e renderà organica la materia di intervento dei tagli referendari: se così fosse, è lecito chiedersi perché il Parlamento, avendone pieno potere, non faccia questo già da subito. Comunque la logica del quesito del referendum è di essere ‘autosufficiente’: nel senso che non viene ammesso dalla Consulta se il risultato che produce non è in grado di stare in piedi da solo, a prescindere da successive leggi di eventuale aggiustamento.
Ulteriore questione riguarda i promotori e le modalità di raccolta delle firme. I referendum sulla giustizia sono stati proposti da cinque Consigli regionali, come la Costituzione permette: attengono a materie di competenza della Regioni? Ma proprio no. Per la prima volta per i referendum sulla droga e sull’omicidio del consenziente hanno fruito delle firme apposte per via informatica: è una obiettiva facilitazione, che per entrambi si è rivelata determinante. Per il fine vita le firme verificate come valide sono state in totale 543.213, e di esse 61.561 sono state raccolte per via informatica: senza di esse la soglia del mezzo milione di sottoscrizioni non sarebbe stata superata. Per la droga le firme verificate come valide sono state in totale 507.104, e di esse addirittura 504.285 sono state raccolte per via informatica! Per la droga deve aggiungersi che il Governo in carica ha dato una mano generosa – senza precedenti – ai promotori, allungando di un mese il termine utile per la raccolta delle firme, che poi, come si è visto, è avvenuta quasi esclusivamente on line.
La riflessione è la seguente: il limite delle 500.000 firme è stato sancito in un’epoca in cui l’autentica della sottoscrizione avveniva a mano davanti al notaio o al segretario comunale: oggi è sufficiente inviare una mail certificata, con il proprio documento di identità; non è esattamente la stessa cosa. In un sistema fatto di pesi e di contrappesi la maggiore facilità di sottoscrizione potrebbe essere compensato da un numero più elevato di firme valide. Se poi, come è avvenuto per la droga, grazie al Governo – e col consenso del Parlamento – passa il principio che il termine viene spostato in avanti finché non si raggiunge il numero previsto, il sistema va realmente in sofferenza.
Alfredo Mantovano, Centro Studi Livatino