Si sta svolgendo in questi giorni un’altra tappa della Presidenza Italiana del G20, che culminerà a Roma nel mese di ottobre. I vertici governativi delle maggiori economie internazionali, ciascuno con il proprio stuolo di delegazioni diplomatiche e tecniche, hanno raggiunto la città di Napoli. E con essi anche una folta rappresentanza della società civile e delle organizzazioni internazionali (Civil 20). Tre i pilastri scelti dal Governo italiano: People, Planet, Prosperity. Nella città partenopea il dibattito si animerà sul tema Planet. Che tradotto significa cambiamenti climatici, degrado dei suoli, perdita di biodiversità e raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030.
Come spesso accade nell’ambito delle relazioni internazionali, l’attenzione che si sviluppa intorno agli eventi in calendario è maggiore della formale rilevanza dei consessi. Ma in questo caso non a torto. A ragione, infatti, gli occhi sono puntati su quanto accadrà a Napoli. È uno degli ultimi appuntamenti preparatori, sul tema ambiente e sostenibilità, prima della COP26 alla quale darà il proprio contributo organizzativo anche l’Italia (con il coordinamento del Regno Unito). I rappresentati delle nazioni e dei popoli stanno ancora cercando di tirare le fila degli accordi preliminari raggiunti a Parigi nel 2015. Non c’è ancora sintonia su quali azioni concrete introdurre per diminuire le emissioni di gas serra e arginare l’innalzamento della temperatura.
Fallita la COP25 di Madrid del 2019 non rimane che guardare con speranza all’avvenire. L’Europa dal canto suo non sembra intenzionata a fare da spettatore. Recentemente ha aggiunto -15% alla riduzione dei gas clima alteranti che si aggiungono al -40% già previsto per il 2030. Nuovi obiettivi e nuove strategie. E così l’Italia si sta dando da fare per aggiornare le proprie previsioni nel nuovo Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima, per pompare quanta più energia rinnovabile nel sistema paese. Ma sul piano internazionale la strada appare in salita. Non sembra sia stato molto ascoltato l’invito dell’Enciclica Laudato Sì ad assumere “onestà, coraggio e responsabilità”.
I paesi in via di sviluppo (o già emergenti) guardano con diffidenza alle condizioni poste dalle super potenze economiche e temono di dover sostenere la maggior parte dei costi della transizione ecologica. Come peraltro già accade, visto il recente rapporto FOCSIV che racconta di terre sottratte a popolazioni locali in nazioni deboli per soddisfare le esigenze di un mercato green che scambia risorse e capitali nei paesi ricchi lasciando dietro di sé degrado sociale e ambientale. E c’è da ritenere che la crisi pandemica che sta attraversando il pianeta non farà che riscaldare gli animi. Proprio il contrario di quello che servirebbe visto che uno degli obiettivi principali degli accordi di Parigi riguarda proprio il contrasto al global warming. Di cui si è tornato a parlare in questi giorni, con insistenza, alla notizia e agli effetti dagli eventi alluvionali che hanno colpito il nord Europa ed in particolare la Germania occidentale. Immagini angoscianti. E numeri, quelli delle vittime e degli sfollati, che lasciano sgomenti. Senza parole. Ma siccome il silenzio spesso non fa che aumentare lo stato di angoscia, si corre al riparo per riempire il vuoto.
Così, anche dalle nostre parti, si sono levati accorati appelli per azioni di contrasto agli effetti del cambiamento climatico in atto. Naturale, sebbene decisamente antropico. L’autostima di 60 milioni di allenatori di calcio è oggi alle stelle. E in qualche direzione deve essere sfogata. Alla prova dei fatti però solo pochissimi si dedicano al tema quotidianamente. Se guardiamo all’andamento delle iscrizioni, negli atenei d’Italia, al corso di laurea in Scienze Geologiche i dati parlano di una lenta e inesorabile decrescita. Peraltro, di numeri assoluti piuttosto esigui. Ma non sembra essere un tema caldo. Non stupisce quindi più di tanto che si ricorra con facilità al tema dei global warming piuttosto che parlare di pianificazione territoriale, prima di tutto. A Roma, in questi casi, è calzante l’espressione “buttarla in caciara”. Non si tratta di mettere in discussione un contenuto, ma di dissentire sul metodo. Che poi se il problema si consolida come global, anche agli occhi della cittadinanza, appare più semplice giustificare come sia difficile contrastarlo.
A livello local. Il nostro Belpaese è anche fragile, è stato detto innumerevoli volte. Forse anche di memoria. Quella storica poi restituirebbe un po’ di naturalità agli eventi alluvionali che continuano, da nord a sud, a verificarsi. Sarà anche per questo che negli strumenti di pianificazione territoriale e contrasto al dissesto idrogeologico di cui l’Italia si è dotata nel lontano 1998 dopo i noti eventi di Sarno (costati la vita ad oltre 150 persone) la valutazione sulla pericolosità del fenomeno atteso deve guardare indietro e in avanti anche fino a 200 anni. E se si curassero di più gli indiscutibili aspetti territoriali degli eventi (estremi che siano) si (ri)scoprirebbero le tante “tacche” che i nostri antenati segnavano sulle mura per tenere traccia di dove arrivò a spingersi l’onda. Ne saremmo sorpresi. E se finanziassimo adeguatamente e velocemente la ricerca, lo studio e la rappresentazione delle caratteristiche geologiche dello stivale forse potremmo avere un’arma in più, foss’anche contro il surriscaldamento globale. Scusate se è poco. Ma forse ci scopriremmo ancor più vulnerabili di quanto non immaginiamo e allora sarebbe un bel problema.
Eh sì, perché il recente studio dell’ISPRA ci racconta che dal 2012 ad oggi a causa del consumo di suolo nel nostro paese abbiamo avuto 360 milioni di metri cubi (360 miliardi di bottiglie da 1 litro) in giro per le nostre strade anziché impegnati a ricaricare le falde acquifere. E che in aree a rischio idraulico e per fenomeni franosi abbiamo occupato suolo per 1000 campi da calcio. Evidentemente c’è qualcuno che non ha capito l’antifona. O forse siamo noi tutti, che ci addobbiamo la coscienza con buone intenzioni, ma quanto più possibile lontane da noi. Meglio se global. Non voleva essere una rassegna delle occasioni mancate. Spero solo di non “averla buttata in caciara”. L’esortazione di Papa Francesco è più valida che mai. Sappiamo che le cose possono cambiare. Laudato si’, mi’ Signore.