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Perché i jihadisti stanno affamando la popolazione del Mali

I dibattiti pubblici e i canali informativi occidentali celebrano spesso e volentieri alcune ben selezionate libertà, escludendo altrettanto selettivamente altre. Una delle vittime di questa accurata cernita è la libertà religiosa, nonostante tale diritto fondamentale sia negato in 62 dei 196 Stati del mondo. In 26 di queste Nazioni si soffre addirittura la persecuzione, e a questa lista si sono aggiunti, per la prima volta, nove Paesi: sette in Africa (Burkina Faso, Camerun, Ciad, Comore, Repubblica Democratica del Congo, Mali e Mozambico) e due in Asia (Malesia e Sri Lanka). La causa principale di tale dinamica è la progressiva radicalizzazione del continente africano, specie nelle aree sub-sahariana e orientale, dove la presenza di gruppi jihadisti è notevolmente aumentata. Questa radicalizzazione non si limita tuttavia all’Africa e non va considerata un fenomeno circoscritto ai confini, pur amplissimi, di questo Continente. Al contrario, essa è effetto del consolidamento di un network islamista transnazionale che si estende dal Mali al Mozambico, dalle Comore nell’Oceano Indiano alle Filippine nel Mar Cinese Meridionale, e il cui scopo ultimo è instaurare un sedicente califfato transcontinentale.

Quanto al Mali, la situazione relativa alla sicurezza e alla stabilità politica ha registrato un netto peggioramento negli ultimi anni e, sebbene le tensioni etniche non rappresentino una novità per il Paese, la spirale di rappresaglie e brutalità ai danni di militari e civili, alimentata dalla presenza di gruppi jihadisti, ha raggiunto livelli allarmanti. Questa realtà ha un profondo impatto sulla libertà religiosa in quanto, pur non essendo la religione la principale causa scatenante delle violenze, la diversa appartenenza religiosa delle parti in lotta aumenta il rischio di persecuzioni.

In Mali i jihadisti impediscono ai contadini di mietere le risaie, bruciano i loro campi e attaccano gli stessi lavoratori quando cercano di provvedere al raccolto. Secondo informazioni fornite ad Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS) da fonti locali, anonime per motivi di sicurezza, i terroristi stanno usando la fame come arma per costringere la gente di campagna a unirsi ai loro ranghi oppure, in alternativa, ad abbandonare la terra affinché sia occupata dagli stessi estremisti. Coloro che hanno già mietuto le loro risaie non possono spostare il raccolto, i campi di quanti si rifiutano di obbedire agli ordini dei terroristi vengono bruciati e i proprietari rischiano anche di essere assassinati.

La situazione è particolarmente instabile nella regione di Ségou, nel Mali centrale, a causa di scontri tra milizie della comunità locale e gruppo di autodifesa dei cacciatori di Donso, da un lato, e gli invasori jihadisti dall’altro. Fonti locali parlano dell’esistenza di un terzo gruppo di banditi armati, difficile da identificare ma non appartenente né ai jihadisti né ai cacciatori di Donso.

Nonostante il terrorismo stia colpendo l’intera popolazione, è particolarmente preoccupante la situazione dei cristiani, che vivono sparsi nei vari paesi della regione. «Ci sono villaggi dove è impossibile andare a celebrare la Santa Messa. I fedeli cristiani devono stare molto attenti a come praticano la loro fede. Anche dove non sono il bersaglio diretto di aggressioni fisiche, sono incessanti gli attacchi verbali lanciati contro di loro durante la predicazione di alcuni imam che condividono l’ideologia jihadista. E sono frequenti anche le minacce personali dirette. Tutto questo sta creando una psicosi all’interno delle comunità cristiane», ha detto ad ACS una fonte a diretto contatto con i fedeli. Non a caso anche il lavoro pastorale della Chiesa sta risentendo della situazione di violenza e degli attacchi degli estremisti: «La libertà di movimento è molto limitata. In precedenza i sacerdoti potevano pernottare nei villaggi ma oggi non è più possibile», ha confermato la stessa fonte.

«I jihadisti agiscono in nome della religione. Tutto ciò che non è conforme alla propria ideologia ne soffre. Ecco perché ci sono così tanti rifugiati», ha spiegato il referente di ACS. Anche se il conflitto non è puramente religioso, «è impossibile negare che si tratti di religione», e «la volontà di imporre la sharia islamica è la prova che i jihadisti, soprattutto quelli della Katiba Macina, stanno lavorando per l’espansione di un islam radicale che molti altri musulmani non condividono», ha proseguito la fonte. Il gruppo islamista Katiba Macina è legato ad altri gruppi estremisti, come Al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM), ed è attivo nel Mali centrale.

Secondo gli ultimi dati dell’UNHCR, il numero di sfollati maliani interni aveva già superato i 400.000 alla fine di settembre 2021. Nella sola prima metà dell’anno quasi 90.000 persone erano state costrette ad abbandonare le proprie case. I rifugiati includono sia musulmani sia cristiani, anche se il numero di musulmani supera di gran lunga quello dei cristiani, dato che quasi il 90% (88,7%) della popolazione del Mali è islamica.

La Chiesa Cattolica, sebbene spesso impotente di fronte alla vastità della crisi umanitaria e alla propria mancanza di risorse, si sforza di assistere tutti coloro che ne hanno bisogno, siano essi cristiani, musulmani o seguaci delle antiche religioni africane.

Nei dibattiti pubblici e nei canali informativi occidentali sarebbe opportuno concedere maggiore spazio a queste comunità cristiane oppresse, a questa libertà religiosa violata, a questa dignità umana negata.

Massimiliano Tubani, Responsabile ricerca sito web Acs

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