Dopo un negoziato durato oltre un anno e mezzo, è stato raggiunto un accordo tra il Parlamento europeo e gli Stati membri sulla futura direttiva relativa all’istituzione di una sorta di salario minimino adeguato al costo della vita nell’Unione. Questa norma, che però deve essere ancora approvata in plenaria dal Parlamento e dal Consiglio prima della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, dovrà, poi, essere recepita dagli Stati membri entro due anni da quest’ultima ma non sarà volta a imporre un cambiamento dei sistemi nazionali, già esistenti, per la fissazione dei minimi salariali ma vuole stabilire un quadro procedurale per promuovere delle remunerazione eque al lavoro dipendente vincolando ogni stato all’obiettivo comune di fissazione un livello salariale dignitoso in tutta l’UE. Cosa vuol dire questo? La risposta vera potrebbe essere benissimo “tutto e niente”.
A oggi, tra i 27 membri dell’Unione l’istituto del salario minimo legale esiste in 21 di essi mentre in Italia, Austria, Svezia, Danimarca, Finlandia e Cipro è applicato un regime di Contratti Collettivi che indicano i livelli remunerativi minimi per settore economico e per inquadramento.
In linea teorica sarebbe proprio quest’ultimo sistema a rappresentare il modello di massima efficienza, permettendo di legare i salari alla redditività e alla produttività dei vari settori economici, quindi non a un parametro stabilito per legge e indifferenziato ma a un reale progetto di sostenibilità a lungo termine di tutto l’impianto economico.
L’onestà intellettuale, però, farebbe sorgere, a questo punto, una obiezione riguardante, soprattutto, la situazione in Italia: perché, nonostante sia già attuato da decenni un sistema sulla carta efficiente, i salari nella penisola sono così modesti e, talvolta, ben al di sotto della sussistenza? Facciamo un passo indietro.
Tempo fa, si queste pagine, si era parlato della crescita dei salari negli ultimi vent’anni che, mediamente, era stata sostanziosa nel resto dell’Unione europea mentre in Italia si è assistito a una contrazione media del 3% del valore medio dei salari reali nonostante il monte delle ore lavorate sia, insieme a quello greco, il più elevato del continente. Il perché di questo va ricercato nel livello della produttività di sistema economico che è costantemente diminuito, a livello pro-capite, almeno da inizio secolo.
Le motivazioni di questo calo vanno ricercate proprio nella struttura del sistema economico italiano fatto soprattutto di micro-imprese a basso valore aggiunto, scarsamente capitalizzate e caratterizzate da un basso livello di investimenti. Attenzione!
Non si tratta di un attacco alla PMI ma un “j’accuse” al management di gran parte di esse che, nella maggioranza dei casi, è stato incapace di guardare al di là del mero ritorno economico a fine anno e di comprendere come il mondo intero stesse cambiando rispetto a come questo era solo qualche anno prima.
L’apertura dei mercati e dei commerci al mondo intero, iniziata tumultuosamente negli anni 90 del secolo scorso e velocizzatasi con l’ingresso della Cina nel WTO nel 2001 ha rimescolato le carte del gioco obbligando a una rapida trasformazione di interi segmenti produttivi e al ripensamento delle logiche industriali alla base di ogni attività dovendosi scontrare con la concorrenza di zone caratterizzate da bassi costi degli elementi produttivi e con una produttività ben superiore a quella europea.
Il grave errore delle aziende e della politica, industriale e sindacale, fu quello di credere di poter mantenere la struttura economica inalterata giocando solo sul contenimento salariale come arma contro la competizione asiatica quando, in realtà, occorreva puntare sulla qualità, sull’innovazione e sulla creazione di sinergie di filiera per la realizzazione di economie di scala e per la massimizzazione degli investimenti produttivi.
Questa, a onore del vero, è stata una sfida che è stata raccolta solo da una parte delle aziende italiane che, tutt’oggi, rappresentano l’eccellenza del Paese, riuscendo a far fronte anche al grosso ostacolo, rappresentato da una struttura burocratica dello stato assai pesante e a un fisco rapace, alla formazione di un ecosistema che possa favorire una crescita sostenibile. Nella maggioranza dei casi, invece, la minimizzazione del costo del lavoro è rimasta la sola variabile su cui basare un minimo d recupero di competitività e una certa redditività d’impresa.
L’introduzione di un salario minimo legale, come auspicato da una parte della politica nostrana, in questo scenario potrebbe essere addirittura dannoso, andando ad elevare sì i livelli più bassi di remunerazione ma a discapito sia del livello generale di occupazione, con la diminuzione degli occupati in pianta stabile, il maggior ricorso a contratti atipici e all’utilizzo di straordinari per coprire gli organici più ridotti, sia di un certo appiattimento dei salari per le qualifiche più elevate verso quest’ultimo, come già si vede, in un certo senso, rispetto ai minimi tabellari dei CCNL per inquadramento, cosa che annullerebbe il possibile effetto reddito che la norma europea vorrebbe innescare.
Fortunatamente, al contrario che in numerose altre occasioni, la futura Direttiva non andrà a imporre alcuno standard comune ma conterrà un’obbligazione di risultato che laddove il salario minimo non sia previsto per via del ricorso alla contrattazione collettiva si richiederà un rafforzamento di quest’ultima sia a livello nazionale sia a livello aziendale o di zona (c.d. contrattazione di secondo livello) per allargare la sua azione al maggior numero di lavoratori possibili e perché questa possa garantire remunerazioni decorose e in linea con il costo della vita.
Purtroppo questo non sarà minimamente sufficiente, poiché, come già si è detto, per poter rendere sostenibile questo nuovo obiettivo occorre che la produttività e la redditività del sistema economico cresca almeno di pari passo e qui entra in gioco la politica nazionale che sarà obbligata a rivedere spesa e fisco (perché non è possibile tagliare il peso del secondo senza che la prima sia ridotta ed efficientata almeno a pari livello), riformare la burocrazia per permettere alle aziende di crescere o di formare dei distretti produttivi o dei consorzi per spingere lo sviluppo della rete delle PMI.
Questi interventi sarebbero ancora più urgenti rispetto alla sbandierata riduzione del cuneo fiscale per ridurre il costo del personale o permettere, a parità di spesa per i datori di lavoro, di elevare la RAL contrattuale che, comunque, non può essere ancora rimandato.
Non è un mistero, infatti che non esistano soldi pubblici ma solo soldi prelevati ai contribuenti e, quindi, ogni intervento lato impositivo deve trovare un corrispettivo lato spesa perciò o cresce la base su cui sono calcolate le imposte o la spesa deve essere tagliata, tertium non datur, quindi gli investimenti per favorire la crescita, come indicato nelle ipotesi del programma NGEU e del successivo PNRR italiano, sono centrali e indispensabili per uscire dal cul de sac, in cui si è infilata l’Italia, caratterizzata dal circolo vizioso bassi salari => minore domanda interna => minore produttività/redditività => bassi salari.
Infine va sottolineato che il rafforzamento della contrattazione collettiva, che sarà imposto dalla nuova direttiva, per raggiungere l’obiettivo di un salario adeguato e decoroso per tutti comporterà una maggiore centralità delle parti sociali, sindacati e relazioni industriali, unita a una maggiore responsabilità non solo verso i propri rappresentati ma verso l’intero sistema economico nazionale, per questo anche l’istituto del CCNL dovrebbe divenire inderogabile, in quanto andrà a stabilire i trattamenti minimi per categoria, e diverrà indispensabile una norma sulla rappresentatività per siglare contratti nazionali ed evitare, soprattutto, i cosiddetti “contratti pirata”.