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Perché il Pil mondiale ha paura del coronavirus

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Quando si parla di epidemie è difficile fare una proiezione preventiva sugli effetti sull’economia, soprattutto quando l’allarme, al momento, risulti ancora circoscritto a una precisa area geografica e sia scattato solo da poche settimane.

Ciononostante, partendo dalle notizie che, giorno per giorno, si stanno diffondendo, c’è già chi sta stimando cosa possa succedere nei prossimi mesi; i precedenti ci sono e possono essere una buona base su cui ragionare. Nel 2009, ad esempio, con l’influenza suina causata dal virus H1N1 la Cina subì perdite per 55 miliardi di dollari senza avere alcun decesso e con “soli” 2.500 contagiati circa, mentre la questione relativa all’attuale infezione da coronavirus i numeri ufficiali sono ben più corposi; la Banca Mondiale, nel 2013, redasse un report in cui calcolava che gli effetti di una pandemia avrebbero potuto portare perdite pari al 5% del PIL mondiale (circa 4.8 trilioni di dollari americani) e, quindi, a fronte di quello che sta avvenendo in Cina in questi giorni vale la pena fare uno sforzo intellettuale per capire quale sia la possibile portata di questa infezione.

Oggi gli effetti più evidenti, ovviamente, si riscontrano in Cina che, credibilmente, per lo stop forzato dato dagli interventi in queste tre settimane potrebbe pagare uno scotto a fine anno pari a quasi 6% del PIL, che vuol dire oltre 730 miliardi di dollari, con la chiusura di interi settori produttivi e la fuga di diverse aziende estere che hanno preferito chiudere filiali e stabilimenti rimpatriando tutti i lavoratori lì distaccati. Tre settimane, sole, possono avere un effetto simile? Sì, perché anche in caso di fine allarme il processo di riavvio di tutta la “macchina” produttiva è lento, non avviene semplicemente girando un interruttore, e i tempi per tornare a regime non sono certo immediati. Anche qualora l’infezione restasse confinata nello Stato del dragone, poi, i riflessi si avrebbero in tutto il resto del mondo sia a livello di export verso la Cina sia a livello di approvvigionamento di prodotti finiti.

Si pensi solo ad Apple con iPhone, questo è prodotto negli stabilimenti della Foxconn a Shenzhen, come anche le linee premium di Samsung e di altri marchi, e i telefoni potrebbero arrivare a scarseggiare sul mercato in caso di blocco prolungato dovuto al “cordone sanitario”, questo così come per tanti prodotti che troviamo quotidianamente sugli scaffali di supermercati o centri commerciali. Vanno contati, poi, anche i riflessi sui conti delle grandi aziende occidentali che avevano trovato in Cina un mercato proficuo e in cui avevano fortemente investito fino ad oggi. Se non si trovasse a stretto giro una cura, calcolando che il tasso di crescita cinese rappresenta circa un terzo del tasso di crescita globale, l’impatto dell’epidemia potrebbe essere pesantissimo anche in questa ipotesi di contagio limitato poiché tra effetto diretto e indotto il danno potrebbe essere pari all’1,8% sul PIL mondiale, cosa che andrebbe ad annullare alla crescita stimata per il 2020 di tutto il globo che era pari al 2.9%.

Qualcuno potrebbe anche brindare pensando che questa possa essere un’opportunità per rilocalizzare molte produzioni che, nel tempo, erano state dirottate verso la Cina per la convenienza data dal costo del lavoro, dalla fiscalità e dai costi gestionali nettamente minori rispetto a qualsiasi stato europeo, una volta erano i noglobal e, oggi, sono i cosiddetti sovranisti, ma non si pensa che da Oriente non giungono solo prodotti finiti ma anche componentistica e diversi semilavorati che occorrono per la realizzazione del “made in…” che rischiano di diminuire se non addirittura di essere bloccati per via della malattia. A rischio, quindi, non ci sono solo i prodotti a basso costo provenienti dalla Cina ma anche alta gamma e lusso che da là si approvvigionano, cosa che potrebbe portare anche al fermo o, addirittura alla chiusura di diversi stabilimenti in occidente se non, nel caso peggiore, al fallimento dei produttori con conseguente impatto su occupazione e reddito nazionale. Il turismo stesso è a rischio, non solo per il minor apporto dei viaggiatori cinesi ma anche per la paura che l’allarme sanitario, razionalmente, genera nelle persone che si muoverebbero con più timore e più difficoltà.

Le misure monetarie intraprese dalla Banca Centrale cinese a sostegno dell’economia, poi, hanno fatto scattare verso l’alto l’inflazione che, nell’ultima rilevazione, è risultata pari al 5.4% rendendo così meno conveniente sia l’acquisto di prodotti esteri sia eventuali viaggi. Nel resto del mondo, oggi, già cominciano a vedersi le conseguenze dell’allarme sanitario, non solo rispetto alla paura nei viaggi che già sta facendo cancellare le prenotazioni di spostamenti di lavoro e vacanze, ma anche dal lato della ristorazione e degli acquisti di tutti i giorni, con i locali e i negozi gestiti da persone di origine cinese deserti o semivuoti, l’esaurimento delle mascherine a protezione di naso e bocca sui principali mercati che hanno visto rincari incredibili nei rivenditori online soprattutto per quelle prodotte in Europa (la maggioranza di esse, ironia della sorte, provengono da stabilimenti a Wuhan) e la pianificazione, da parte dei governi, di misure eccezionali di contenimento dei possibili contagi anche esortando, dove possibile, i datori di lavoro nel concedere il telelavoro da casa per limitare gli spostamenti.

Parlando specificatamente dell’Italia, poi, questa situazione di allarme potrebbe avere delle conseguenze significative poiché come nel caso della Germania l’economia del Bel Paese è orientata soprattutto all’export e la Cina, oggi, è il principale partner commerciale. Come evidenzia Il Sole 24 OreIl turismo vale il 10% del Pil italiano, il lusso oltre il 50% della nostra bilancia commerciale. E poi c’è la catena internazionale del valore: per esempio l’impatto sui produttori italiani di freni montati sulle supercar tedesche che fino a ieri venivano vendute in Cina.”, la quarantena imposta, quindi, potrebbe avere delle ripercussioni assai vistose sulla fragile crescita italiana.

Tutto questo, ovviamente, potrebbe succedere se l’epidemia cinese non si espandesse nel mondo per diventare pandemia, come fu l’influenza Spagnola fra il 1918 e il 1920 che contagiò un terzo della popolazione mondiale e causò più di 50 milioni di vittime, in caso contrario lo scenario sarebbe ben differente e molto più grave, come già descritto prima citando lo studio della Banca Mondiale.

Matteo Gianola: