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Perché Dio non può dimenticarsi di me

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Alla fine della Quaresima e contemplando ormai la luce della Risurrezione, atto di amore supremo del Padre nei confronti di Gesù e di ciascuno di noi, ci viene spontaneo considerare l’amore di Dio per il suo popolo e, quindi, per ciascuno di noi in alcuni passi della Sacra Scrittura.

Anzitutto il profeta Isaia. Sono testi meravigliosi. Bisognerebbe leggere tutti i brani del Secondo Isaia. Si tratta sempre dell’amore appassionato del Dio di Israele per il suo popolo. Ci limitiamo a una scelta ristretta. “Sion ha detto: ‘Il Signore mi ha dimenticato’. Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io non ti dimenticherò mai. Ecco, sulle palme delle mie mani ti ho disegnato, le tue mura sono sempre davanti a me” (Isaia 49, 14-16). Predominano due immagini, due potenti immagini. La prima è quella della mamma considerata nell’amore per il suo bambino. Dio ama il suo popolo, quindi ama me, come una mamma ama il suo bambino. Ora, l’amore di una mamma e quindi l’amore di Dio sembrano avere due caratteristiche. Da una parte, la mamma, e perciò Dio, non solo dà al suo bambino tutti i beni a lui necessari, ma anche riceve dal suo bambino il bene per una mamma più importante, quello dell’esistenza e insieme dell’amore del suo bambino. E ciò perché il bambino è la sua gioia, è la sua vita e, quindi, la mamma ha bisogno del suo bambino, brama la sua esistenza e insieme il suo amore. Così è Dio nei confronti del suo popolo, nei miei confronti. D’altra parte, la mamma, perciò Dio stesso, ama in modo permanente, e ciò per il semplice motivo che non può non amare. Così è Dio nei confronti del suo popolo, quindi nei miei confronti. La seconda potente immagine è quella del tatuaggio: “Ecco, sulle palme della mia mano ti ho disegnato”. Dio ha tatuato Gerusalemme sulle sue mani. Come il tatuaggio è permanente, così lo è l’amore di Dio, per Israele, per me.

Facciamo ora un salto nel tempo e arriviamo a Gesù. Sappiamo bene che Gesù leggeva i testi dei Profeti e certamente anche da loro ha potuto ricavare gli elementi essenziali del suo insegnamento sull’amore di Dio. Il luogo più alto in cui Gesù propone nel Vangelo tale dottrina è la parabola così detta – e mal detta – del figliol prodigo, certamente uno dei vertici di tutta la Sacra Scrittura. Mi direte: è comprensibile che un padre soffra per la perdita di un figlio e quindi gioisca per il suo ritrovamento. E’ vero; però tra uomini. Ma questo padre è Dio stesso. E, allora, è Dio che soffre per me e gioisce per me. Questo risulta stupefacente, anzi al limite del credibile. Non è forse Dio quell’Essere perfettissimo a cui non manca nulla? Come può dunque avere bisogno di me, per la sua gioia, per la sua vita? Accettiamo pieni di stupore questa ineffabile rivelazione, già iniziata nei Profeti e portata a perfezione in Gesù. Dio, il Padre, ci ha costituiti suoi figli. Noi portiamo il suo nome, il suo cognome. Siamo per lui preziosi, siamo degni di stima, siamo la sua gioia, siamo la sua vita. Per questo egli ci ama come una mamma o un papà. Non ci può mai dimenticare, non ci può mai perdere, ci riprende sempre con sé.

In modo speciale nell’insegnamento di Gesù, che è, comunque, in consonanza con i profeti, possiamo cogliere pienamente le caratteristiche dell’amore di Dio. Da una parte, il Padre ci ama, perché ci dona ogni bene. Dall’altra, perché siamo per lui motivo di gioia e di vita. Ed è per questo che Dio ha bisogno di noi. Brama la nostra esistenza e insieme il nostro amore. E ciò in modo permanente. Non può assolutamente stare senza la nostra presenza, non può resistere o sussistere senza il nostro amore, morirebbe di dolore se non tornassimo a vivere con lui. Per questo ci ama per sempre.

Tiriamo quindi le conseguenze per quanto riguarda la natura della preghiera: è innanzitutto una risposta di amore all’amore appassionato di Gesù. È come dire a Gesù: Tu mi vuoi con amore di passione e di sussistenza e io ti dico (ecco la preghiera) che ti penso, ti amo, ti sono vicino. Basterebbe dire ogni tanto la semplice invocazione: “Gesù ti voglio bene” per dare felicità a Gesù. E tiriamo le conseguenze, infine, per quanto attiene alle opere: sono una risposta di amore all’amore appassionato di Gesù. Compiere opere significa quindi dire a Gesù: Tu mi ami con amore di passione e di sussistenza e io desidero ricambiarti come posso, anche con poco, però col desiderio di darti tutto.

card. Francesco Coccopalmerio: