Non sono ancora riuscito a capire che cosa intenda fare il governo sulle pensioni già nella legge di bilancio. Stando a quanto affermato da Giorgia Meloni nelle comunicazioni del presidente del Consiglio durante il dibattito sulla fiducia e ribadito dal ministro Calderone nell’incontro con i rappresentanti delle organizzazioni economico-sociali (27 sigle presenti) nell’incontro del 4 novembre sembra chiarito che un’eventuale riforma strutturale del sistema è rinviata perché non ci sarebbero né il tempo né le risorse destinate ad altre priorità ovvero all’emergenza energetica. Quanto alle pensioni allora il governo dovrebbe agire all’ambito del perimetro enunciato da Meloni: “Intendiamo facilitare la flessibilità in uscita con meccanismi compatibili con la tenuta del sistema previdenziale, partendo, nel poco tempo a disposizione per la prossima legge di bilancio, dal rinnovo delle misure in scadenza a fine anno’’. Quali sono, dunque, le misure che sarebbero rinnovate? Solo l’ape sociale e opzione donna oppure anche quota 102?
Se il pacchetto del rinnovo fosse completo io sarei abbastanza soddisfatto, perché quota 102 (64 +38) garantisce una relativa sostenibilità e realizza di fatto un innalzamento sostanziale dell’età effettiva alla decorrenza del pensionamento. A fronte di un governo laconico, veniamo sommersi ormai da settimane da “indiscrezioni’’ e “fughe di notizie” che spariscono o mutano nel giro di un paio di giorni per fare posto ad altre ipotesi. Qualche settimana fa a fianco della riconfermata “opzione donna’’ era comparsa un “opzione uomo’’ con i medesimi requisiti (possibilità di quiescenza a 58/59 anni con 35 di versamenti, sottoponendo il calcolo dell’assegno interamente al metodo contributivo). Poi si vede che qualcuno ha messo in guardia il governo dell’errore che stava commettendo perché quei requisiti, se applicati alla condizione di fatto delle lavoratrici nel mercato del lavoro, costituiscono un’uscita di nicchia perché di solito le donne non riescono a vantare una soglia contributiva tanto elevata, diversamente dagli uomini appartenenti alle coorti del baby boom, che non hanno difficoltà a raggiungere lo stock dei 35 anni di lavoro regolare e continuativo a 58/59 anni e che di conseguenza incrementerebbero con condizioni più vantaggiose l’esercito dei lavoratori in pensione anticipata. Resta in circolazione, come se appartenesse a chissà quale Cabala, il numero 41 individuato come limite magico oltre il quale deve essere consentito di andare in pensione. Ma occorre capire – fortunato chi ci è riuscito – se il requisito dei 41 anni è il solo richiesto o se è destinato a fare quota insieme ad un requisito anagrafico.
Bisogna comprendere correttamente il meccanismo delle quote, sulla base dell’esperienza triennale di quota 100. Per andare in quiescenza, sia con quota 100 che con quota 102, i requisiti indispensabili non sono la somma, ma gli addendi. In sostanza non bastava raggiungere comunque quota 100 o 102, ma avere 62 o 64 anni e 38 di contribuzione. Chi – vigente quota 100 – a 62 anni avesse maturato solo 36 anni di contributi avrebbe dovuto lavorare altri due anni per raggiungere la soglia dei 38 anni, così nello stesso tempo anche l’età anagrafica da 62 passava a 64 anni. In senso analogo ma opposto, chi si fosse trovato ad aver maturato 38 anni di anzianità a 60 anni di età, doveva restare in servizio fino a 62, andando così in pensione con 40 anni di contributi. Solo poche decine di migliaia hanno azzeccato l’ambo secco; in prevalenza l’età del pensionamento dei “quota centisti” è stata di 64 anni e la contribuzione di 41 anni. Va da sé che lo stesso fenomeno si è realizzato con quota 102, che, peraltro ha praticamente dimezzato la platea dei possibili beneficiari di quota 100. Se, come ha detto Meloni, il governo intende dare flessibilità al sistema la prima cosa da fare è quella di rendere fissa la quota ovvero la somma dei due requisiti, ma consentire – magari con un limite minimo – una articolazione dei parametri anagrafici e contributivi. In sostanza sarebbe sufficiente far valere quota 102, magari con 62 anni e 40 di contributi oppure a 66 anni e 36 di contributi. In questo modo si aumenterebbe la platea degli aventi diritto e quindi anche dei beneficiari. Secondo la Fondazione Studi dei consulenti del lavoro l’adozione di un sistema flessibile, rispetto a quello rigido, produrrebbe, nel caso di quota 102, un incremento dell’88,7%, che interesserebbe principalmente i 66enni che hanno maturato un’anzianità contributiva inferiore ai 38 anni necessari. E l’universo attivabile con Quota 102, dal 15,6% nella formula rigida passerebbe al 29,5% in quella flessibile. Infine, io vorrei capire che cosa succede alla pensione di vecchiaia di cui nessuno parla mai come se esistessero soltanto i pensionamenti anticipati.
Quanto al reddito di cittadinanza (RdC) è necessario e urgente una revisione debba essere nella parte che ha vistosamente fallito ovvero la pretesa si effettuare politiche attive con quello strumento, coi CPI e i navigator (che poi alla fine sono i soli che pagheranno il conto degli errori altrui). Ma riterrei un crimine spostare risorse dal RdC per destinarle alle pensioni. Nella passata legislatura il ministro del Lavoro Orlando aveva incaricato una commissione di fare delle proposte di modifica e ne aveva affidato la presidenza a Chiara Saraceno. Erano emerse interessanti analisi ed indicate soluzioni senza dubbio migliori che tenevano conto dei limiti più evidenti scaturiti dall’esperienza. La parte più innovativa riguarda la “gestione’’ dei percettori del reddito, perché tiene conto delle condizioni effettive delle platee dei beneficiari. Fin dall’inizio della “presa in carico” di quanti erano ritenuti in grado di lavorare è prevista una distinzione tra chi non è occupabile e chi in teoria potrebbe esserlo, avviando, senza inutili giri, i primi ai servizi degli enti locali. Così la dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro verrebbe sottoscritta solo dai soggetti avviati ai CPI. La vera novità – di rilievo strutturale – consiste nell’adeguare il concetto di “lavoro congruo’’ alle caratteristiche della platea dei richiedenti.
Si riconosce, infatti, che “i beneficiari” di RdC, anche quando teoricamente “occupabili” spesso non hanno una esperienza recente di lavoro ed hanno qualifiche molto basse. Inoltre, i settori in cui potrebbero trovare un’occupazione – edilizia, turismo, ristorazione, logistica – sono spesso caratterizzati da una forte stagionalità. I criteri attualmente utilizzati per definire congrua, e quindi non rifiutabile, un’offerta di lavoro non tengono conto adeguatamente di questi aspetti, mentre sarebbe prioritario favorire la costruzione di un’esperienza lavorativa. Pertanto, anche la qualità del lavoro che viene offerto dovrebbe considerare “almeno temporaneamente, congrui non solo contratti di lavoro che abbiano una durata minima non inferiore a tre mesi’’, ma anche quelli per un tempo più breve, purché non inferiori al mese, “per incoraggiare persone spesso molto distanti dal mercato del lavoro ad iniziare ad entrarvi e fare esperienza’’. Ma il bagno nella realtà si spinge oltre e mette in discussione la norma più assurda ora in vigore.
L’obbligo di assumere a tempo indeterminato per le aziende che intendono usufruire dell’incentivo previsto. “Trovare un’occupazione a tempo indeterminato e con orario pieno rappresenta – è scritto nel documento – l’obiettivo ultimo dei percorsi d’inclusione lavorativa. Il mercato del lavoro, tuttavia, non sempre presenta queste condizioni, soprattutto all’ingresso, anche per chi non è, a differenza dei beneficiari di RdC, in situazione di particolare fragilità’’. Così vengono riconosciute, sia pure a certe condizioni che irrigidiscono l’operazione, meritevoli dell’incentivo anche aziende che offrono rapporti di lavoro a termine o a part time. Che dire in conclusione? Le proposte ridimensionano il limite “ideologico” che ha ispirato l’istituzione del RdC: quello di tenere insieme, con un notevole stanziamento di risorse, un obiettivo di inclusione sociale e uno strumento importante di politica attiva. Ovvero la pretesa di combattere con la stessa misura tanto la povertà quanto il precariato. Ma vale davvero la pena di prevedere un percorso separato per politiche attive figlie di un dio minore, quasi una sorta di ‘’Garanzia Giovani’’ per gli adulti? Se il RdC non può essere (per tanti motivi) il volano della svolta nel campo delle politiche attive, sembrerebbe più opportuno e meno oneroso, ritornare alla funzione immaginata per il ReI dove non erano escluse esperienze lavorative quali corollario di un’idea di “cittadinanza” intesa innanzi tutto come “inclusione” sociale gestita dagli enti locali. Per aiutare i disoccupati che hanno “confidenza” con il mercato del lavoro, anche se ne sono temporaneamente estranei, produrrebbe maggiori risultati dotare gli interessati di un assegno di ricollocazione da “spendere” in un CPI o in una agenzia del lavoro che allo scopo di svolgere quelle attività formative che li rendano nuovamente “occupabili”.