I due “fiori all’occhiello” dell’esperienza di governo del Movimento 5 Stelle sono sicuramente l’approvazione del Reddito di Cittadinanza e della cosiddetta Quota 100 in ambito pensionistico (seppur quest’ultima su impulso dell’ex alleato leghista) ma sembrerebbe che qualcosa stia velocemente mutando.
Inutile dire che su entrambi gli istituti si siano riversate molte critiche, sia a livello politico sia a livello di opportunità e sostenibilità economica, però fino ad oggi la retorica di almeno una parte della maggioranza di governo ha continuato a sostenerne la bontà e gli ottimi risultati ottenuti. Poi è arrivato il cigno nero: la pandemia legata alla diffusione del virus Sars-Cov-2.
Le misure restrittive adottate in Italia e in tutto il mondo hanno generato una crisi economica di cui ancora non si percepisce la gravità ma che ha spinto alla delibera di mezzi straordinari in ogni angolo del globo per contrastarla tra cui il Recovery Fund europeo.
Già si è parlato di questo in molte occasioni e si è illustrato come l’Italia sarà uno dei maggiori beneficiari dei fondi europei destinati al rilancio dell’economia ma… C’è un “ma” piuttosto importante.
Tra le richieste europee per poter accedere ai fondi, che ricordo devono avere il via libera da parte della Commissione, c’è anche una revisione delle misure assistenzialistiche come il già citato Reddito di Cittadinanza e dell’impianto pensionistico in un’ottica di stabilità finanziaria. Per queste ragioni il Premier Conte ha già dichiarato che Quota 100 arriverà al termine della “sperimentazione” triennale ma non sarà più rinnovata.
Senza provvedimenti in tal senso, quindi, dal 1° gennaio 2022 tornerà l’impianto della “riforma Fornero”, contestato da più parti ma, al momento, l’unico finanziariamente sostenibile, anche se già si parla di una proroga dell’Ape Sociale e dell’Opzione Donna e di una nuova “Quota 41”, cioè la possibilità di accedere ai trattamenti previdenziali dopo 41 anni di contributi, indipendentemente dall’età. Ma Quota 100 è veramente errato come concetto?
A logica no, anzi sarebbe mediamente una soluzione equa, ma ci si scontra con la struttura stessa dell’impianto pensionistico italiano. Quante volte ci si è sentiti dire “ma io la pensione me la sono pagata”?
Questa, in definitiva, oggi è una mezza verità, i “vecchi” pensionati, pre Riforma Dini, godono di un sistema c.d. retributivo, cioè con un assegno parametrato sui redditi degli ultimi anni di lavoro, poi, gradualmente, si è passati a un sistema “misto” per giungere al sistema contributivo attuale dove il trattamento previdenziale è erogato sulla base dei contributi versati nel corso della vita.
Il problema nasce, però, dal fatto che quei contributi non abbiano mai costruito il c.d. “zainetto previdenziale”, come avviene nei fondi pensione integrativi per intendersi, cioè quel capitale che va a originare la rendita alla base dell’assegno pensionistico.
Il “peccato originale” è la struttura a ripartizione della gestione INPS, che vuol dire che la contribuzione della popolazione attiva va a pagare gli assegni dei pensionati odierni, senza alcun accumulo di capitale e legando la sostenibilità del sistema a mere questioni demografiche.
La fusione nell’INPS di INPDAP, l’ente che erogava le pensioni pubbliche, ha aggravato la situazione, così come il fatto che da INPS dipendano anche le erogazioni degli ammortizzatori sociali come la Cassa Integrazione Guadagni.
Tutto questo genera uno squilibrio annuo a livello finanziario che obbliga l’Erario a trasferire miliardi di euro ogni anno a copertura dei disavanzi generati dalla gestione del sistema previdenziale e assistenziale.
È evidente che una struttura simile vada bene laddove la popolazione attiva sia decisamente maggiore di quella a riposo o in condizioni da dover ricevere assistenza ma quando i tassi di disoccupazione crescono, così come il ricorso a strumenti come la CIG e la popolazione continui a invecchiare senza un continuo rinnovamento appaiano le crepe.
Un sistema a capitalizzazione, infatti avrebbe garantito la sostenibilità finanziaria nel tempo nonché avrebbe garantito la libertà di scelta del cittadino sull’età pensionabile, valutandone l’opportunità sulla rendita ricevibile calcolata sui contributi versati; il punto è che una cosa simile non avrebbe permesso la gestione “politica” delle pensioni come ammortizzatore sociale o, peggio, come regalia elettorale. Non si sarebbero, quindi, visti i baby pensionati degli anni 80, ad esempio, né sarebbe stato necessario continuare a mettere continuamente mano sul sistema per stabilizzarlo. La “Riforma Fornero” stessa non fu un provvedimento realmente strutturale ma una pezza per garantire la sostenibilità della gestione previdenziale.
Se pensata internamente a un sistema a capitalizzazione, quindi, un’idea come Quota 100 sarebbe stata assolutamente fattibile ma allo stato attuale avrebbe comportato o una diminuzione dei trattamenti, colpendo il potere d’acquisto dei pensionati, o un aumento della contribuzione, colpendo il livello dei redditi netti o la contribuzione a carico del datore di lavoro per i dipendenti, rendendo ancora meno conveniente lavorare e fare impresa nel Paese.
L’annuncio del mancato rinnovo a scadenza, quindi, non può che essere una buona notizia, sotto un certo punto di vista, resta, però, “sul piatto” la necessità di rendere sostenibile e più equo il sistema previdenziale e, questa, è una sfida che presto qualcuno dovrà accogliere.