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Pensioni, il passo necessario per sostenere i giovani

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Se si volesse fare il “punto” sulle pensioni, si dovrebbe andare “a capo” subito, perché da quando è insediato il governo Draghi, quella parola (suscitatrice di passioni e desideri, di rancori e di speranze, di invidia sociale e di ogni tipo di demagogia possibile ed immaginabile) sembra sparita dal vocabolario in uso a Palazzo Chigi. E per la verità sembra essere finita nel dimenticatoio al Dicastero del Lavoro. In verità, abbiamo scoperto che il presidente del Consiglio è un seguace del credo: “un bel tacer non fu mai scritto’’. Anche Andrea Orlando – da buon ligure – non è molto loquace. Evidentemente il Governo ha altre priorità, a partire dal decollo di una campagna di vaccinazione che, nelle intenzioni, doveva avviarsi e concludersi nel più breve tempo possibile per evitare che l’immane sforzo scientifico, finanziario, produttivo ed organizzativo per immunizzare decine di milioni di persone (in Italia e in Europa) non finisse per essere vanificato dalle varianti del virus.

Ma il tema delle pensioni è sempre al centro dell’interesse dell’opinione pubblica per non fare capolino in ogni occasione. Tanto più che – come sappiamo – il problema è iscritto all’ordine del giorno da quando il governo giallo-verde con l’introduzione di quota 100 e delle altre misure ha deviato il percorso della riforma Fornero incamminandolo su di una strada senza uscita, alla fine della quale vi è un ponte sospeso nel vuoto (le controriforme introdotte nel 2019 sono sperimentali e temporanee e prima o poi verranno a scadenza). Il cicaleccio tra le forze politiche e sindacali sta prendendo – a avviso di chi scrive – una brutta piega.

Come è avvenuto altre volte in periodi di crisi, sono in atto numerosi tentativi improntati a trasformare il pensionamento in un ammortizzatore sociale di carattere permanente, con sottointesa la più grande delle mistificazioni (nonostante il vistoso fallimento di a seguito di quota 100): mandare in pensione il prima possibile e il maggior numero possibile lavoratori anziani allo scopo di assumere dei giovani.

Maurizio Landini pretende che vi sia un assunto per ogni pensionato, con una nuova staffetta generazionale. Come se si dovesse ripristinare un regime di collocamento obbligatorio con la c.d. chiamata numerica all’insegna del “uno vale uno“, ovvero un lavoratore vale l’altro a prescindere dalla professionalità che serve all’azienda per sostituire chi esce. Anche nel pubblico impiego allo scopo di ringiovanire gli organici, il ministro Brunetta parla di assumere personale più giovane (gli under35) mediante una procedura che ha un nome collaudato nei decenni: “scivolo” ovvero un incentivo al prepensionamento. Circolano in proposito veline con requisiti ultraridotti: 62 anni e 30 di contributi. Già nella sua “prima volta” al ministro della FP fu promosso un meccanismo di esodo anticipato attraverso una norma che consentiva alle amministrazioni (salvo eccezioni) di mettere in quiescenza che avesse maturato 40 di contribuzione a prescindere dall’età anagrafica. I dipendenti che erano stati assunti in giovane età si trovarono pensionati a loro insaputa. Poi c’è stata quota 100 che nel pubblico impiego ha ricevuto parecchie adesioni (il 50% di quelli previsti nella Relazione tecnica contro il 14% del settore privato). Tuttavia, se si vuole svecchiare facendo “scivolare” i travet più anziani verso la pensione è opportuno che Brunetta si accerti con cura di aver reso più efficienti le procedure dei concorsi, altrimenti nella pubblica amministrazione – come è già successo in diversi settori – si sguarniscono i servizi e si è costretti ad assumere personale precario, come avviene periodicamente nella scuola. I posi vacanti sono al Nord mentre gli insegnanti precari sono in maggior numero al Sud. Quando si attinge alle graduatorie (è successo così con la legge detta della “buona scuola”) gli insegnanti meridionali sono richiamati a ricoprire la cattedre scoperte, che non sono vicine a casa ma a centinaia di km. Così iniziano le proteste, le accuse di essere deportati, si vanno a cercare i parenti disabili, ci si mette in malattia (ovviamente dopo aver preso possesso della cattedra magari per pochi giorni) fino a quando non si trova il modo di ritornare al paesello.

Così nelle località del Nord si deve ricorrere a dei supplenti, i quali anni dopo chiederanno di non essere più precari.  La linea dei prepensionamenti è purtroppo trasversale e attraversa i sindacati e i partiti politici.

Si direbbe – nel silenzio di Mario Draghi – che vi sia una certa convergenza  su di una forma di pensionamento anticipato che riecheggi quota 100 (magari con qualche requisito differente sia più severo che più lasco) sia come via d’uscita di carattere generale, ovvero consentita solo a particolari figure professionali (le donne e le categorie disagiate).

Il punto dirimente riguarda il calcolo: se interamente contributivo anche per il periodo pregresso sottoposto alle regole del retributivo oppure (come chiedono i sindacati) continuando a distinguere i due periodi. In taluni casi, per chi sceglie il pensionamento di questo tipo, sarebbe prevista anche una penalizzazione economica per ogni anno di anticipo.

Continuiamo a pensare che sia sbagliato piegare il sistema pensionistico ad esigenze congiunturali e a preferire il trattamento anticipato anche a scapito dell’importo della pensione. Non è certo questa una politica utile alle generazioni future destinate ad entrare nel mercato del lavoro stabilmente anni dopo i loro padri e a ritrovarsi quindi – poco più che sessantenni – con anzianità di servizio più ridotte. Con le relative conseguenze sulla “qualità” dell’assegno.

Giuliano Cazzola: