I passi avanti da fare nelle politiche di inclusione

Foto di Cash Macanaya su Unsplash

Le politiche migratorie, in Italia, stanno peggiorando. Si sta tentando di esternalizzare le frontiere all’Albania con una serie di investimenti finalizzati ad allontanare i migranti con una procedura di dubbia legalità. Piuttosto che richiamarsi alla solidarietà verso popoli che scappano da guerre e da crisi umanitarie molto serie e affrontare la situazione in Europa e in Italia la quale, occorre ricordarlo, è il primo luogo di arrivo per coloro che arrivano da determinate rotte, si tende invece a costruire strutture e investire denaro in un Paese extra – Ue, con numeri esigui di persone ospitate, senza peraltro riconoscere ad alcuni il diritto all’asilo. Abbiamo a lungo contestato questo modo di operare e continueremo a farlo: non ci pare che, i viaggi della disperazione delle persone che cercano una vita migliore sul suolo europeo, siano diminuiti.

Le persone fuggono dai loro Paesi di origine perché, in quei luoghi, vivono in condizioni disperate e, a volte, sono costrette ad andare via per salvarsi. Basti pensare ai migranti più giovani giunti in Italia: le loro famiglie investono ingenti somme di denaro indebitandosi per far sì che, almeno uno di loro, possa avere un futuro migliore.

Le nostre politiche di inclusione però, non sono cambiate. La legge Bossi – Fini è sempre lì e, a quanto sembra, non c’è nessuna volontà di modificare le regole di accesso, anche per quanto riguarda le lavoratrici e i lavoratori. Si continuano a registrare episodi agghiaccianti: voglio ricordare il caso di Satnam Singh, il lavoratore indiano a cui è stato amputato il braccio da un macchinario ed è morto dissanguato per i fatti che ben si conoscono e per i quali, come società, dovremo vergognarci per il solo fatto che possano esistere.

Serve una normativa capace di prevenire tali fenomeni e in grado di rivedere il processo in merito alle cosiddette “quote” per cui, attualmente, secondo la Bossi – Fini, si può giungere solo dopo una scelta dei lavoratori effettuata all’estero dagli imprenditori. Se invece, nel nostro ordinamento, fosse prevista la possibilità di un permesso di soggiorno a tempo per la ricerca di un lavoro, probabilmente, accadrebbero diverse cose buone. Ci sarebbe un’emersione del lavoro sommerso, che vale cento miliardi di euro l’anno e produce notevoli danni all’economia legale.

Una democrazia deve tendere al massimo della trasparenza e della legalità: non è possibile tenere delle persone a lavorare in certe condizioni nei campi, avocando ad ogni disgrazia il fatto che ci vogliano più ispettori. Ciò è indubbiamente vero, ma il problema non si risolve soltanto con maggiori controlli. Servono nuclei ispettivi più preparati, ma anche politiche di inclusione e riconoscimento da parte dello Stato. Se invece si continua a far sì che, le persone, arrivino nel nostro Paese nel nascondimento, rischiano di diventare ostaggio di coloro che, sfruttando il prossimo, diventano ricchi. Non abbiamo fatto passi avanti, ma anzi, qualche passo indietro.