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Partecipazione dei lavoratori nelle imprese: lo sviluppo delle buone pratiche

È l’ora della partecipazione dei lavoratori. Quella che i tedeschi chiamano la Mibestimmung, cioè la presenza di rappresentanti dei lavoratori nella stanza dei bottoni delle aziende, in Italia neanche se ne parla. Eppure la rivoluzione digitale che cambia ogni giorno il modo di lavorare e restituisce a chi lavora la capacità di poter leggere i processi lavorativi e lo strapotere delle big tech dovrebbero consigliare di dare più voce in capitolo a chi lavora e non abbandonarli al populismo. La partecipazione dei lavoratori alla gestione, ai risultati e ai profitti delle imprese è un tema che negli anni ha acquistato nuova forza nel contesto europeo e impulso anche a livello di legislazioni nazionali. La diffusione di schemi partecipativi è considerata uno strumento innovativo delle relazioni industriali in una logica di fidelizzazione dei lavoratori all’impresa e di crescita della produttività.

In Europa varie forme di partecipazione sono operative da decenni e sulla base di queste esperienze l’Unione europea ha emanato nel 2001 un regolamento dedicato a questo tema. In Italia si è discusso saltuariamente di partecipazione dei lavoratori a causa della coesistenza nel sistema delle relazioni industriali di culture antagoniste. Le illuminanti intuizioni dei Costituenti sulla necessità della partecipazione dei lavoratori alle scelte dell’impresa indicata con l’art. 46 nella Costituzione, fu disastrosamente disattesa dall’inizio della esperienza repubblicana. Questa avversione è poi risultata ancora più odiosa ed ingiustificabile dopo l’adozione in Germania dei contenuti dell’art. 46, già negli anni 50 “la Mitbestimmung”, e poi in Francia nella prima decade del terzo millennio. Dunque sinora neanche le esperienze più che positive avute nelle economie industriali tra le più potenti del mondo che si rifanno alla economia sociale di mercato hanno convinto i conservatori di sinistra e i conservatori dell’impresa italiana a cambiare verso.

Negli ultimi anni, però, qualcosa si sta muovendo nell’ambito dello sviluppo delle buone pratiche di partecipazione. Basti pensare alle prime misure legislative del 2008 relative alla detassazione e decontribuzione dei premi di risultato in caso di coinvolgimento paritetico dei lavoratori nell’organizzazione del lavoro, al “Patto per la fabbrica” del 2018 sottoscritto tra le tre Confederazioni sindacali e Confindustria in materia di partecipazione organizzativa, agli interventi significativi in diversi contratti collettivi, dove si prevedono tra l’altro, organi paritetici per numerose funzioni dell’organizzazione del lavoro e, da ultimo, alla innovativa proposta di legge di iniziativa popolare della Cisl per il sostegno e la promozione della partecipazione economica, finanziaria e gestionale in tutte le forme di datorialità. Ma perché è così indispensabile la partecipazione dei lavoratori alla vita, agli utili e all’organizzazione delle imprese? Le innovazioni produttive e organizzative, soprattutto quelle ottenute attraverso le tecnologie dell’informazione, hanno accentuato la diversificazione dei lavori rispetto al modello fordista e l’attitudine delle imprese a modellarsi in funzione delle esigenze di flessibilità sollecitate dal mutare dei modelli di consumo e dalla stessa competizione globale. Pertanto, le accresciute esigenze di qualità e il contenimento dei costi a fronte della competizione globale, spingono, da una parte, le imprese a mettere al centro la produttività. L’apertura di spazi partecipativi risponde a bisogni profondi di valorizzazione del lavoro e della centralità e crescita della persona e contribuisce a rafforzare la fidelizzazione dei collaboratori, a ridurre i conflitti tra capitale e lavoro, ad aumentare la produttività, la competitività, la redditività delle imprese, a migliorare la qualità del lavoro con effetti positivi sulla motivazione e soddisfazione personale, diventando un esempio eccellente di politica aziendale e uno strumento di redistribuzione della ricchezza.

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