Sono trascorsi tre mesi da quando, con una procedura opinabile (sulla quale https://www.centrostudilivatino.it/corte-cost-su-ergastolo-ostativo-di-nuovo-detta-contenuti-e-tempi-al-parlamento/), seguita per altre importanti questioni – l’aiuto al suicidio e la sorte dei figli da maternità surrogata -, la Corte costituzionale ha ritenuto, con l’ordinanza n. 97/2022, il contrasto fra gli art. 3 e 27 della Costituzione e la disciplina dell’esclusione dalla liberazione condizionale del condannato all’ergastolo per omicidi o stragi di mafia. La Consulta tuttavia non ha dichiarato subito l’illegittimità del regime carcerario duro per i mafiosi: ha rinviato l’esame delle questioni al 10 maggio 2022, per consentire al legislatore di intervenire con una legge che tenga conto “della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso, e delle relative regole penitenziarie”. In tre mesi il Parlamento non ha neanche sfiorato il tema: se andrà così fino alla scadenza del termine indicato, non ci si dovrà stracciare le vesti quando il Giudice delle leggi cancellerà larga parte del c.d. 41 bis.
La questione è complessa, dal punto di vista giuridico e politico: mentre i condannati all’ergastolo “comuni” possono aspirare di essere ammessi alla liberazione condizionale dopo 26 anni di reclusione (in realtà 20 anni, per le riduzioni previste dall’ordinamento penitenziario), se i medesimi delitti sono aggravati dal metodo o dalla finalità mafiosi, la possibilità non esiste, a meno che il condannato non collabori con la giustizia. Gli ergastolani non collaboranti non possono accedere a nessun beneficio penitenziario come permessi premio, semilibertà, detenzione domiciliare e affidamento in prova al servizio sociale. La collaborazione con la giustizia è premiata perché attesta il distacco dall’area criminale di appartenenza, attraverso l’aiuto che il collaborante fornisce allo Stato per far catturare e condannare i responsabili dei delitti più gravi.
Più volte, anche in anni recenti, la Corte costituzionale ha avanzato il dubbio che la scelta di collaborare sia sempre “libera”, poiché chiamare in causa terzi pone a serio rischio il detenuto, e i suoi parenti in libertà. La Consulta però non ha tratto le conseguenze dei principi più volte affermati e ha sollecitato l’intervento del legislatore, cui riconosce la titolarità delle scelte di politica criminale che una sentenza di illegittimità costituzionale per un verso non ha competenza a fare, per altro verso non è in grado di fare senza squilibrare il sistema.
La Corte invita in sostanza il Parlamento a redigere una legge che per faccia emergere “le specifiche ragioni della mancata collaborazione”: la normativa che impedisce di concedere la liberazione condizionale agli ergastolani non collaboranti sarebbe legittima, secondo l’argomentazione della Corte, purché preveda la possibilità di tenere conto delle “specifiche ragioni” che impediscono al detenuto di collaborare. Presupposto di ammissibilità della domanda di liberazione condizionale dovrebbe essere la non sottoposizione al regime di cui all’art. 41 bis ord. pen., e cioè la riscontrata assenza di comprovati collegamenti con un’associazione criminale. Inoltre il detenuto deve avere seguito durante il tempo di esecuzione della pena un comportamento tale da “far ritenere sicuro il suo ravvedimento”; la valutazione spetta nello specifico al Tribunale di Sorveglianza e deve essere certa, non probabilistica (per una completa disamina cf. https://www.centrostudilivatino.it/lergastolo-ostativo-dopo-lintervento-della-corte-costituzionale/).
Tutto questo esige una ricostruzione normativa attenta, nel difficile equilibrio fra le esigenze di sicurezza e il rispetto dei diritti. Un Parlamento che ometta di intervenire si assumerebbe la responsabilità, per l’ennesima volta, di lasciare la scelta alla Consulta, la cui annunciata sentenza di illegittimità non potrebbe non essere traumatica. È una prospettiva che va evitata.
Alfredo Mantovano, vicepresidente Centro Studi Rosario Livatino