Quando Francesco, nel settembre del 2021, si recò a Budapest, vi andò per il congresso eucaristico, e promise che sarebbe tornato, per loro. Deve farlo e lo fa accompagnato anche da un medico e da un infermiere, per fermarsi tre giorni ma senza lasciare la capitale, Budapest. Se le sue condizioni di salute lo avessero permesso sarebbe stato un viaggio diverso, ma le grandi emergenze che si accavallano intorno e nell’Ungheria saranno tutte presenti nel viaggio del papa. Come lo ha chiarito lui stesso, domenica scorsa: “Un viaggio al centro dell’Europa, sulla quale continuano ad abbattersi gelidi venti di guerra, mentre gli spostamenti di tante persone pongono all’ordine del giorno questioni umanitarie urgenti”. Dunque ci sarà la guerra e ovviamente il dramma dei profughi, sia ucraini, numerosissimi nella confinante Ungheria, sia della rotta balcanica, ai quali il Paese del premier Orbàn non apre le porte. Dunque l’incontro con i poveri e i rifugiati, sabato 29 alle 10.15 presso la Chiesa di Santa Elisabetta d’Ungheria, sarà uno dei momenti più importanti della visita. Il leader della “democrazia cristiana illiberale”, Viktor Orbàn, non è uomo di mezze misure, e neanche i problemi sono mezzi problemi.
Oggi lui, Viktor Orbàn, è uno dei pochi possibili tasselli di contatto tra l’Europa, di cui l’Ungheria fa parte, e la Russia di Putin, di cui il premier ungherese è un noto alleato. E quindi il viaggio apostolico nella città del Ponte delle Catene è un viaggio della diplomazia della Misericordia, che non parla solo con i suoi amici, con chi lo segue, lo condivide, ma parla con tutti, e non considera nessuno pregiudizialmente perduto alla diplomazia della misericordia.
C’è quindi qualcosa che va al di là dell’Ungheria, della sua realtà complessa e anche drammatica, come tutta la realtà dell’area in cui gravita e si trova? Certo che c’è. E per fortuna. In un mondo di muri e di incomunicabilità, un mondo fratturato, incapace di riconoscersi mondo di uomini con uguali diritti e uguali doveri, il papa ha il dovere di guardare al di là, sull’altra sponda, sulle altre sponde del mondo diviso.
Che Budapest oggi sia anche la città dell’ex numero due del Patriarcato di Mosca, Hilarion Halfeyev, e del rabbino di Mosca fuggito dal suo Paese, la Russia, indica una realtà di cui poco si tiene conto e che non ne fa un fortilizio putiniano. Ma anche un luogo a cavallo tra due mondi in conflitto. E’ lì, a Budapest, che il papa della misericordia e della diplomazia della misericordia, doveva andare, al di là di chi vedrà. Perché l’unguento di cui cospargere le ferite europee non deve cercare i cantori delle proprie capacità, ma gli interlocutori possibili di una nuova comprensione, per quella nuova Helsinki che sappia ridare un respiro unico ma non un polmone unico all’Europa. Se non si accetta l’idea del polmone unico questo rifiuto vale per chiunque lo proponga come unico, non per uno solo.
Ma il respiro rimane respiro, vitale per tutto il corpo europeo. E allora non può che colpire che nei due giorni di lavori del papa con il Consiglio dei Cardinali di lunedì e martedì scorsi, la sala Stampa abbia riferito che sono state “al centro della conversazione le situazioni di guerra e di conflitto in cui si trovano molte parti del mondo e la necessità di un lavoro unitario di costruzione della pace da parte di tutta la Chiesa”. Non a caso, come ha giustamente scritto Fausto Gasparroni, “alla vigilia del viaggio, Francesco riceverà in Vaticano il primo ministro dell’Ucraina, Denys Shmyhal, impegnato a Roma nella Conferenza Bilaterale sulla Ricostruzione dell’Ucraina”. Lo ha fatto poche ore fa e il premier ucraino riferendo al riguardo ha detto: “Abbiamo parlato della formula di pace e del possibile aiuto di Sua Santità e del Vaticano nel raggiungimento di tutti i passi del piano di pace del presidente Zelensky. Ho chiesto anche a Sua Santità l’aiuto nel ritorno a casa degli ucraini e dei bambini ucraini che sono detenuti, arrestati, deportati in Russia forzatamente”. Un intervento in tal senso è probabile per un papa che ha già contribuito a iniziative di pace e umanità tra le due parti.
Desiderare la pace vuol dire molte cose, anche saper capire cosa succede. E allora acquisisce risalto l’articolo di padre Vladimir Pachkov pubblicato dalla newsletter 1850 de La Civiltà Cattolica a poche ore dal viaggio ungherese del papa e intitolato: “Iran, Russia e Cina. Può diventare realtà un nuovo impero mongolo?” Padre Pachkov, mentre alcuni si attardano a parlare di tramonto della Cina e della sua crescita (chissà cosa accadrà) ci ricorda che già nel 2018, modificando la linea “né Oriente né Occidente, ma Repubblica Islamica”, l’ayatollah Ali Khamenei, “capo della rivoluzione, ha dichiarato che l’Oriente costituiva la priorità in politica estera, e ha chiamato questa visione “lo sguardo a Est”: l’alleanza con la Russia e la Cina”.
Per padre Pachkov “Questa antitesi alla «occidentalizzazione» fin qui è soltanto un «controprogetto», un atto di liberazione dall’influenza occidentale sotto la protezione del nuovo Paese egemone, la Cina. In che misura le nazioni che si rivolgono «verso l’Oriente» vogliono cambiare di conseguenza – o se non vogliono, almeno essere disposti a sottomettersi all’influenza cinese- è una questione aperta”. L’idea di ordine mondiale post-occidentale è sul tavolo e tutelare le legittime aspettative del popolo ucraino deve tenerne conto. Il viaggio del papa in Ungheria inquadrato così sembra trovare tutto il rilievo che ha.