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Papa Francesco: primario della Chiesa ospedale della vita

Roma
Foto di Jae Park su Unsplash

Quando ho letto che papa Francesco è fuori pericolo ho tirato un sospiro di sollievo, come si trattasse di una bella notizia relativa a uno di casa. E da quel momento ho cominciato a pensare a questo 13 marzo, anniversario pontificale. La prima idea che mi è venuta in mente è molto semplice: il fatto che sia ancora malato ci dice che l’ospedale da campo lo ha preservato. E, credo, lui lo preservi per noi, come sua offerta per tutti. L’idea della Chiesa ospedale da campo era già lì, nel giovane Jorge Mario Bergoglio, da quando i suoi guai polmonari, quelli che lo tormentano anche oggi, lo portarono a rischiare di morire, giovanissimo. Non riusciva a respirare e chiese a sua madre cosa gli stesse accadendo. Come suol dirsi, lo ripresero per i capelli. Cosa poteva essere la Chiesa per questo ragazzo? Un ospedale da campo, pronto a soccorrere l’umanità ferita in tante strade, in tante periferie, geografiche ed esistenziali. I tanti di noi che, come me, non hanno provato la sensazione di sentirsi morire per l’impossibilità di respirare tutto questo però lo capiscono, e ne percepiscono il valore, la portata, siano o non siano parte della Chiesa. L’ospedale da campo non ti chiede per accedere di mostrare i bollini in regola sulla tessera che consente l’accesso. Ma è la Chiesa che lo gestisce ad animarlo, a renderlo operativo, per curare tutte le ferite dell’umanità spaesata in questo mondo liquido, oggi, forse, polverizzato più che liquido.

Guardando la scena si capisce molto bene che il messaggio è semplice: nessuno si salva da solo, ma tutti vanno aiutati a non morire soffocati da qualcosa; dalla liquefazione dei riferimenti, dalla nebulosa che ci avvolge come fossimo noi stessi le polveri sottili che ci inquinano l’aria, dalla solitudine in cui ci siamo rifugiati da quando abbiamo perso i nostri vecchi riferimenti senza trovarne di nuovi. Guardando la scena si capisce allora anche un’altra cosa: che siamo proprio “Fratelli tutti”.

I muri divisori ai quali ci siamo affidati per delimitare il nostro spazio da quando è oggettivamente fallita la globalizzazione perdono di senso: senza respiro, credenti e non credenti si scoprono comunque fratelli nell’ospedale della vita, credenti in un modo o nell’altro si scoprono fratelli all’accettazione. Perché quell’ospedale simboleggia la priorità del bene comune, che sono tanti beni differenti di persone comunque sofferenti sebbene per diversi malanni. Qui i credenti in ogni credo possono scoprire che li divide, per il luogo o il punto di partenza, la strada che intraprendono per raggiungere la vetta, che comunque è una. I non credenti scoprono che non sono esclusi, perché molti di loro cercano con sincerità come curare tutti. Quest’ospedale allora è la vita, che si dimostra possibile solo se scopriamo l’empatia, che nel momento in cui ci viene offerta diviene naturale offrire.

Sono dodici anni oggi che sento questo ospedale da campo aperto anche per me, per le mie ferite, che curo ascoltando le parole del primario, cioè di Bergoglio. Non sempre le capisco, a volte rispondono ad altri codici, ma sempre ho bisogno di ascoltare e di cercare quale possa essere la sintonia. E prima o poi la trovo. Soprattutto perché è sempre formulata in modo da non farmi sentire escluso.

La globalizzazione non era una cattiva idea, era un’idea buona, ma non ha saputo ascoltarlo quando, a inizio pontificato, ha raccomandato di non fare del mondo una sfera, dove tutti i punti sono uguali. Siamo tutti diversi, per quello siamo uguali, non perché fatti tutti con lo stesso stampino. Allora, perché nella globalizzazione ognuno si sentisse rispettato per quel che è, lui ha sostituito alla sfera la figura del poliedro, i cui lati sono tutti diversi, come noi.

Anche il localismo non è una cattiva idea, è un’idea buona, se il locale si inserisce nel globale, non si oppone al mondo, non si chiude. Tutto questo, per dirlo nel modo più banale, spiega la sua filosofia, la tensione polare. Senza due poli non c’è corrente, non c’è vita. I conflitti vanno accettati, non risolti, nella Chiesa e fuori di essa, e come nel conflitto tra globalizzazione e localismo vanno considerati entrambi non per risolvere per sempre la disputa, ma per portarli a trovare una prima convergenza che porti poi il confronto ad un livello più alto.

E’ per questo che la cosa più importante nella vita non è gestire il proprio spazio, occuparlo, tenerlo in mano, ma avviare processi. La storia non si ferma e noi possiamo migliorarla avviando processi nuovi, non abbarbicandoci al nostro spazio, alla nostra idea. Ma nel fare questo è la realtà che deve guidarci. Con l’occhio vigile sulla realtà, non sulle nostre idee, scopriremo facilmente che i tempi cambiano, per questo dobbiamo cambiare anche noi, leggendo i segni dei tempi e trovando così il modo “di restare fedeli al vangelo”.

Ci serve dunque una vera capacità di discernimento. Cosa viene dallo spirito buono e cosa dallo spirito cattivo? Occorre stare nella mutevole realtà, e camminare, cioè camminare nella Storia. Chi cammina ha bisogno di un metodo per non ritrovarsi a vagare, che è cosa diversa: questo metodo per lui si fonda se tre “i”: inquietudine, incompletezza di pensiero, immaginazione. Sì, solo l’inquietudine dà pace: l’inquietudine, avvalendoci dell’immaginazione, ci rende capaci di immaginare i nostri nuovi vicini, i loro guai, i loro malanni. Senza inquietudine non ci potremo sintonizzare, ma se invece ci riusciremo, a sintonizzarci, avremo fatto un grande passo avanti e troveremo così la pace. A questo incontro in sintonia con il nuovo contesto dovremo arrivarci però consapevoli che il nostro pensiero è incompleto, non chiuso, perché un pensiero chiuso è rigido, e la carne umana è rigida solo dopo la morte.

Dunque il suo pontificato è incompleto? Certamente, questo è il suo grande merito. Lo è per scelta, per definizione: incompleto non solo perché, per fortuna, non è finito, ma perché lui lo tiene aperto, lo sa incompleto, perché il suo pensiero incompleto è aperto, come le porte dell’ospedale da campo, che non possono chiudere.

Le sorprese dunque non sono finite, e pensare al fatto che dal suo letto d’ospedale abbia visto ancor più assurda la guerra aiuta a immaginare, immaginare che ci aiuterà ancora ad andare oltre, invitandoci ad essere consapevoli dell’incompletezza del nostro attuale pensiero. Ringraziarlo così sarà sempre un enorme piacere.

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